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Il liberalismo immaginario di Calenda

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“Serve una forza liberale”, scrive Carlo Calenda al Corriere della Sera, e tu commetti l’ingenuità fatale di credere al titolo. Al linguaggio, ai concetti-chiave, alla storia delle dottrine politiche. E vai a leggere, accalappiato da quell’aggettivo “liberale”. Ecco le parole d’ordine di un simile soggetto, secondo Calenda. “Nessuno mette più in discussione il fatto che le diseguaglianze vadano ridotte anche attraverso l’intervento dello Stato”.

Ehm, scusaci Carlo, qualcuno che mette in discussione il teorema statalista esiste ancora, e per fortuna, in caso contrario saremmo al trionfo del Pensiero Unico. Qualcuno, ti sembrerà strano, immagina ancora che una “forza liberale” non debba ripartire dall’abiura di Adam Smith, von Hayek, von Mises, Milton Friedman, Bruno Leoni, Sergio Ricossa, ma dalla loro esaltazione. Qualcuno crede ancora che “liberale” voglia dire pensarla come Ronald Reagan, pensare che “il governo non è la soluzione dei nostri problemi: è il problema”, figurati un po’. E lui lo scandiva in una terra eretta sull’iniziativa individuale.

Tu, in un Paese piagato da decenni di sostanziale socialismo reale, con il carico fiscale complessivo sull’impresa e l’apparato burocratico più elefantiaci d’Europa, scrivi senza paura del ridicolo (o del tragico) che per un nuovo partito liberale “i pilastri del welfare pubblico vanno rafforzati”. Ancora più Stato, siamo al liberismo tendenza Corea del Nord, siamo in un terreno inesplorato, oltre l’ossimoro.

Nell’agenda dadaista del Nostro stanno poi ai primi posti le crociate per “l’ambiente” e per “l’immigrazione”, quando due grandi costanti della battaglia liberale contro l’oscurantismo anti-occidentale della cultura di sinistra sono state quelle in difesa della produzione e dell’industria dall’ecologismo declinista, e quella in difesa della società aperta da tutte le aggressioni esterne, comprese l’immigrazione incontrollata e la distopia multiculti in cui della libertà individuale non rimane più nulla.

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