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Il “mistero agonistico” di Brera, (forse) il più grande giornalista del Novecento

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Chi è stato il maggior giornalista del Novecento? Indro Montanelli, dicono un po’ tutti. E se non fosse così? C’è chi dice che il più grande giornalista del secolo scorso sia stato Mario Missiroli, altri dice che sia stato Giovanni Ansaldo o uno dei due Barzini e per altri fu Benito Mussolini. Tutte delle grandi firme e tutte legate a doppio filo alla politica. Ieri, però, un altro grande giornalista, che a volte è stato indicato come l’erede di Montanelli – gli successe alla guida de il Giornale quando Berlusconi “scese in campo” -, Vittorio Feltri, ha scritto, per i cento anni dalla nascita, un gran bel ricordo di Gianni Brera e ha detto che, in fondo, Gioàn è stato il più grande giornalista del secolo, forse più grande dello stesso Montanelli. Bah, quando si è a queste altezze gira la testa e stare a stabilire primati ha un che di insensato. È un po’ come quando chiesero allo stesso Brera, per l’ennesima volta, chi fosse più bravo tra Rivera e Mazzola, e lui rispose alla sua maniera dicendo che sia la domanda sia la risposta hanno un che di assurdo perché è come dire chi fu il maggior genio poetico tra Dante e Shakespeare.

Il giudizio di Feltri ha un che di particolare che merita considerazione. Gianni Brera, infatti, non scrisse di politica ma di atletica, di boxe, di ciclismo e, infine, di calcio. Fu quello che si definisce, secondo una definizione un po’ sciocca, un giornalista sportivo, dove l’aggettivo tenderebbe un po’ a sminuire il sostantivo. Il più grande giornalista del secolo non verrebbe, dunque, dalle fila del giornalismo politico bensì dal giornalismo sportivo che, a torto o a ragione, è considerato un genere minore. Ma, forse, la grandezza di Brera sta proprio qui: nell’aver portato lo sport in prima pagina e nell’aver inventato financo la letteratura sportiva o nell’aver reso le cronache e le storie di sport letteratura.

Ho fatto in tempo a vedere Gianni Brera in televisione. Lo ricordo alla Domenica sportiva dietro a quel suo banchetto di legno – una sorta di cattedra – dove teneva i suoi resoconti domenicali che non erano solo analisi delle pedate e delle partite di campionato ma una più ampia umanità che oggi, per chi lo conosce, ricorda la figura sapiente e sapientemente ironica di Alessandro Cutolo che in televisione aveva una trasmissione di largo successo come Una risposta per voi.

Non tutte le risposte di Brera erano giuste. E non tutti i suoi libri furono memorabili. Il più importante, dal quale sperava una maggior gloria letteraria, fu senz’altro Il corpo della ragassa, da poco ripubblicato. Ma ciò che resta di Brera non sono i libri bensì i “pezzi” che, in fondo, sono pezzi unici, proprio come un’“apertura” dell’Abatino o un tiro a volo di Rombo di tuono che, per la loro bellezza, sono destinati ad esser fatti insieme di tempo ed eternità. Uno di questi articoli dell’Arcimatto lo ha ripubblicato ieri proprio il Giornale con il titolo: “Vi spiego il fòlber quell’istinto fondato sul nerbo atletico”. Qui Brera sostiene, con grande classe, che il calcio è un mistero che ha dell’inspiegabile perché per quanti giri di parole si facciano e per quanti schemi si applichino alla fin fine ciò che conta per davvero, e che il più delle volte risolve le partite, è un particolare, un gesto, un intuito, un arbitrio, un’invenzione o – perché no, per stare ai giorni nostri – un autogol all’ultimo minuto di recupero del gigante buono Koulibaly. Insomma, il calcio non si fa facilmente ricondurre a facili schemi razionalistici e proprio per questa sua natura giocosa in cui il pallone rotola è simile, molto simile alla vita che rivendica la sua libertà contro chi si affaccia al balcone – non solo ieri, anche oggi – e contro chi annuncia di sapere tutto.

Tuttavia, proprio in quell’articolo Brera ad un certo punto se ne esce con una cosa strana che non si può accettare. Dice: “E poi si può giocare, anche da soli, battendo contro una parete qualsiasi: e non v’è dubbio che saper dominare il moto di un corpo rotondo ed elastico entusiasma sempre il bipede uomo…”. Invece, il calcio non può esser giocato da soli ma solo con altri e attraverso gli altri perché il calcio non è un gioco monista ma pluralista e, come la filosofia, ha il suo fondamento nell’amicizia.

In quella frase Brera enuncia la prima regola del gioco del calcio: il Controllo. È necessario dominare la palla, come ripeteva il grande Cruijff, ma questa è solo la prima regola perché poi la palla bisogna metterla in gioco. E questa è la seconda regola: l’Abbandono. Ancora una volta è proprio come nella vita umana di tutti i giorni: la vita/palla va controllata ma il controllo non è né assoluto né fine a sé stesso perché la vita/palla va abbandonata alla libertà delle passioni e delle scelte. Nel “mistero agonistico” del calcio di Gianni Brera c’è nientemeno che la nostra libertà e il segreto del Novecento. Forse, per questo è stato il più grande giornalista del Novecento.

Giancristiano Desiderio, 9 settembre 2019