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Il problema di Sanremo? Show e canzoni fanno schifo

Prima serata del Festival di Sanremo 2024: da Amadeus a Mengoni, se questo è il meglio della musica italiana siamo messi male

Amadeus Sanremo2024

Se questa è musica, se questo è il meglio della musica italiana, allora meglio farsi fuori in massa come gli invasati di quelle sette della provincia americana.

Ma chi è questa Clara che ha vinto tra i giovani, echissà che dovevano essere gli altri, dei muti, dei tapini, ma l’avete visto, l’avete sentito questo Sangiovanni, che Amadeus chiama Sangio, l’avete sentito con la “lèèèttera”, quelle e larghe come padelle, neanche capace di pronunciare da cristiano e si crede Sinatra, poveroSangio. Ma l’avete vistala Mannoia, che una volta l’anno molla il sussiego comunista, femminista, pertanto sciocco, e torna qui a spolverare patetici sogni di gloria. “Sono Negazione e orgasmo”, ma lascia perdere, ahi ahi ahi ahi, compagna, chelagna. Sai che c’è? Che questa roba è più ingessata del solito, più patetica, come il numerino del direttore d’orchestra che sbaglia sempre i tempi, come la finta sorpresa per il rieccolo Ibrahimovic che ricorda sempre più Celentano, vestito come uno dei Casamonica mentre l’incartapecorito Ama pare un domatore di pulci.

Incartapecorito Festival: la prima gaffe registica pare innocente ma è terrificante, inquadrano un gobbone mostruoso dal quale entrambi leggono e così ogni effetto sorpresa evapora. Qui tutto, anche i sorrisi, anche le scorregge, è a gobbo, non si scappa. Non c’è tensione, non c’è tensione, tantissimo dolore per ogni presunto cantante. Ma che roba è i La Sad, quello in mezzo è il figlio di Malgioglio, quello con la cresta blu, il verde di Achille Lauro, siamo già ai cloni, il rosa non si sa ma mentre fa la linguaccia pensi certamente di un padre sventurato. Tutto così artificioso, così odioso. Così improbabile. Oh, così gggiovane. Aprono bocca e pensi che piuttosto che avere tre figli così è meglio averne tre dell’Isis. “E vomito anche l’anima”. Avete provato a velare lo specchio? “L’amore spacca il cuore”.

Se questo è il meglio della musica, ma di questo torneremo a parlare, allora noi non abbiamo capito niente ma ci sembra che ci inganna a questo modo indecente meriterebbe le catene. E qui a mentire sono tutti. Neanche in Russia succede che un telegiornale sia dedicato integralmente a questi trenta, questo big nothing, questo immenso nulla che a vederlo, davvero avvilisce. Ammala. Scusate: ma questi La Sad sostengono la campagna contro il suicidio? No, questi lo provocano. E Mengoni, nel ruolo del bellimbusto ipergriffato, una mannequin, ha il coraggio di leggere dal gobbo che “Tra queste 30 canzoni ci sarà quella che ci cambierà la vita”? Ma come fai a non rifiutarti? Non ce l’hai un po’ di dignità, figliolo? Scusate la crudezza, ma questa roba si può raccontare solo così.

Ha ragione Gino Paoli, prima le canzoni di merd* non ci arrivavano su questo palco, adesso se non sono di merda non ce le vogliono. Ma non è solo questo: è come ci fosse un compiacimento demoniaco per la miseria, professionale, artistica, umana, come se dovesse passare l’oltraggio dei peggiori, neanche i mediocri, i cani, i pessimi in tutto e dunque anche a Sanremo. Amadeus, a parte tutto, che fa a parte leggere, ora dal gobbo ora dalla cartellina? Che guizzi ha, che carisma offre? È un manovale dello spettacolo, pagato le sette, ottocentomila euro solo per Sanremo. Il Pupattolo Mengoni dite che ah, però lui “è bello e ha la voce”? Per farche? Per cantare quelle furbate da stadio con gli accendini, da ragazzini fluidi, la più palese anti-arte solo per arraffare soldi? Dove starebbe l’ambizione dell’artista?

Discorsi da purista direte voi, pipponi da snob. Ma io proprio non ce la faccio a consolarmi con l’ossessiva citazione del soldo, dell’incasso, dei biglietti venduti, dei dischi venduti, non ce la faccio con la moglie di Amadeus in prima fila che fa l’ovazione a Mengoni che presenta col marito che dice ah che grande energia, 5 anni che la mena con l’energia quando qui è tutta una moscieria, hanno riesumato pure quelli dei Divani. La sagra dell’ovvio, del puerile e va bene che questo, da sempre, è il Festival del regime, ma qui siamo alla Sagra del macabro. Scusate, ma io non so che dire di Irama che non può cantare, che muggisce e miagola su una sigla da cartoni animati che sarebbe stata vecchia già nella mia infanzia.

No, io non mi rassegno alla convinzione grottesca, imbarazzante di questi che ci credono, sono funzionali alla distruzione di ogni forma artistica ma ci credono, fanno di quelle smorfie, di quegli spasmi che sembrano sconvolti da attacchi di stitichezza acuta o il contrario fisiologico. Scusate: ma non le avete già sentite queste puttanate computerizzate, che chiunque abbia un minimo di padronanza musicale o anche solo di orecchio capisce subito dove vadano a parare, dove risolvano, nella maniera regolarmente più facile, più prevedibile, più scolastica. Parola mia che ne ho seguiti a decine di Festival ma oltre la vergogna a questo livello non credevo fosse possibile arrivassero. E non si vergognano? No, non tengono vergogna, un cinismo spaventoso.

Ma chi è questo Ghali, in pigiama, che pare il figlio di Pippo Franco e difatti fa una filastrocca improponibile che ricorda il chi chi chi co co co. Scorrono, ma sono impossibili da distinguere, forse perché in quattro o cinque sedicenti compositori si spartiscono tutte le canzoni. Le solite cricche festivaliere, ma è palese la logica: omogeneizzare tutto nella assoluta negazione di qualsiasi velleità, sonora, artistica. Il rincoglionimento strutturale, la lobotomia programmata, così è più facile far passare vaccini e carni di laboratorio e l’idea farneticante che a 30 all’ora non ci si ammazza per la strada.

Voglio dire che tutto è collegato e niente è casuale. E questi che si contorcono sono funzionali e lo sanno. Per queste oscenità tutta l’attesa spasmodica, tutta l’isteria, i telegiornali che si disinteressano di guerre e sciagure e convergono su questo palchetto dove spelacchiati inviati dai denti giallastri fingono orgasmi per degli emeriti spaventapasseri? No, io non li reggo i Ciuri che da 30 anni, dai tempi della Falchi fanno il villaggio vacanze a Sanremo, pure l’Aristolello, l’Ariston al servizio di Fiorello, in trenta autori ci si mettono per ‘ste boiate e siamo non so dove, in eurovisione, in mondovisione, lo trasmettono pure in Ucraina, pensa quelli che culo, non gli bastava la distruzione totale.

No, non li sopporto i Negramaro che non hanno mai avuto niente da dire e oggi meno di niente, il Giuliano Sangiorgi che ricorda un prete sociale piddino e stride come un castrato, non la tollero Annalisa che se non le mettevano in bocca ho visto lei che bacia lui che bacia lui stava ancora a fare le pizze e adesso porta praticamente la stessa cosa con le parole cambiate, una miseria anni Ottanta virata in autotune, un succedaneo della Carrà. E Tocca pure leggere prosseneti che sui giornali la definiscono prodigiosa, una divinità.

E mi repelle anche il pietismo facile del ragazzo musicista ammazzato a Napoli, la madre che legge la solita lettera, e poi piange, perché è chiaro che è un pretesto, che la morte di quel piccolo eroico Cristo serve al patetismo della redenzione di un Festival di porcate, e giù lacrime, sul palco, in orchestra, in platea ma questo è il posto sbagliato, l’occasione sbagliata e “mammarella tua” doveva risparmiarsela questa comparsata. Ma doveva fare il suo comizietto per Napoli e per se stessa, con la scusa di Giogiò. Con Ama che frigge e pensa ai tempi, non è che sforiamo? Lui è uno che si fa il segno della croce come i calciatori, Dio fammelo andare bene questo Festival che magari torno anche il prossimo ed è un altro milione in tasca.

Se fossi Dio, per scomodare Primo Levi, sputerei sulla sua preghiera, perché le preghiere possono essere blasfeme. E il Festival continua ma è inutile continuare, sono tutti intercambiabili, uno vale l’altro e nessuno vale niente. C’è uno, si chiama “Lazza”, che sta in tuta, ha una tonsura da frate drogato e dice che quello dell’Ariston “è un palco uau”. Diodato, quello che faceva rumore, è diventato una specie di personaggio da poliziottesco Settanta, ma perché tutti così sfigati, così emaciati, Diodato pare il ministro Speranza che balla in mezzo a un corpo di ballo di vaccinati. Ma ecco la Bertè, in minigomma, stivaletti e labbroni da Paperopoli, solita autobiografia ultrapatetica della pazza furiosa che, spiaze, direbbe Ibra, ma non regge più neanche un karaoke.

Di tutti si vantano “gli streaming”. C’è un Geolier uscito da Secondigliano ed era meglio se ci restava, sempre sta retorica del napoletano che deve ascì fora, che addà campa. Scusate, ma questo che avrebbe di diverso da centomila altri per stare quassù? Chi ce l’ha messo? Non c’è musica, non c’è niente. Non c’è con la commessa musicale Alessandra Amoroso, che appena senti che la canzone gliel’ha fatta la Federica Abbate ti metti l’anima in pace perché quest’altra alle prese pentagramma è il disastro più ostinato e raccomandato di tutti i tempi. Qui ci sarebbe la musica italiana di oggi e di domani? Deliberata dalla commissione Ama su seimila canzoni? Allora chiudiamo tutto, arrendiamoci, consegniamoci all’invasore chiunque esso sia.

Il Festival infinito dura troppo, troppo, fino alle 2 per rimpinguare la notte di pubblicità e perché ogni due minuti c’è qualche morto da fingere di compiangere. Un cimitero dove agilmente si muove Zio Amadeus. The Kolors, con la kappa, a lungo morti e purtroppo resuscitati l’estate scorsa con una tipica miseria vacanziera: e insistono, anche questi scopiazzando i La Bionda, disco Settanta, la fantasia impotente di certa gente è oltre l’indecente. Toh, senti che rima, che liriche. Questo sarebbe il modo per gli italiani di dimenticare i problemi? No, Dio delle città e dell’immensità del nulla, allora meglio i problemi.

C’è uno che ha scritto ad Ama che è triste perché da Singapore rischia di perdersi Sanremo. E la Rai l’ha accontentato, l’ha salvato. Mengoni è anche disinvolto a presentare, nel suo doppiopetto fetish di pelle rossa, ma io, scusate, non lo sopporto col suo genderismo istituzionale da Eurofestival, come non sopporto la figlia di Mango che non pare neanche reale, tutto un bamboleggiare disagiato, ho letto che si sarebbe appena lasciata con non so che influencer però ha “un casino di visualizzazioni”. Ne parlano come di una specie di Ella Fitzgerald, ma propone una roba insulsa e vagamente mignottesca, non lei, intendiamoci, la canzone. La “Cumbia dell’amor”.

E avrà pure ragione chi dice ma chi te lo fa fare, ma parla d’altro, ma il fatto è che in questa settimana l’altro non c’è, non c’è altro e allora bisogna pur registrare l’immenso niente che ci avvolge e ci mangia. Vivi? Non ci giureremmo. A mezzanotte ne mancano ancora più della metà, si vede che in Rai pensano che gli italiani di giorno dormono, non fanno altro, non lavorano, non si curano, ma il Paese non è la Rai, anche se la Rai lo pretende, Seguiranno Il Volo, questi nati vecchi, questi profeti del melodismo paraculo, la Big Mama la cui presenza si giustifica per esclusive ragioni woke, i Ricchi e Poveri che sono di un impatto estetico terrificante (ecco, come deriva chirurgica Sanremo sì, è rappresentativo), Emma che cerca rilanci drammatici ma improbabili con quella minestra riscaldata, Renga e Nek che non cercano più niente e non sanno di molto di più, anche se su una melodia decrepita almeno provano ad infilare un testo quasi decente, Mr. Rain che sa di pioggia acida, Bnkr che sarebbero i Ringoboys in libera uscita, da un manicomio infantile, Gazzelle che vuole essere gli Oasis e invece sembra Josè Feliciano ma solo negli occhiali, Dargen d’Amico con gli orsetti pucciosi che aristicamente è un nemico dell’umanità anche se fa il pippone solidale pacifista, Rose Villain che non vorrei essere villano ma pare ‘na colonna sonora di Onlyfans, Santi Francesi sui quali il tacere è bello, anzi è l’unica cosa, anche se funzioneranno benone nei camerini dei centri commerciali, Fred de Palma che fa più male dell’olio, io rifiuto di credere che questo qui ha “milioni di visualizzazioni”, se è così siamo fottuti, Maninni, pensati Ultimo, che è come i pandori di Chiara Ferragni, Alfa, pensati quello che te pare, che è come le uova di Pasqua di Chiara Ferragni, il Tre che per chiudere in mollezza ve li regalo come le alghe di Wanna Marchi, d’acooordo?

Bilancio finale: a, uè, uì, la canzone non va lì,a, uì, uè, di talenti non ce n’è, non uno che sappia stare su un palco, stoccafissi sotto sale, una muffa che infetta tutto e tutti al punto che i rifattoni totali, come i Ricchi e Poveri e la Berté, sono gli unici ad andarne immuni essendo ormai oltre. Qui sarebbe la musica? A Sanremo, più che il Conservatorio, viene in mente il riformatorio.

E questo è quasi tutto: qui l’unica cosa che musicalmente si salva sono i momenti pubblicitari, con le canzoni vere, storiche, trasformate in jingle eppure sembrano lo stesso irridere un Festival mentecatto tra un Mahmood fluidissimo che bofonchia versi levantini senza senso, nel senso di fonemi inumani, e Mengoni parafluid che abbraccia materassi e fa altre cose preoccupanti, tipo ammanettarsi ad Ama. Più cocotte che “coco”, per dire conduttore. La gag, agghiacciante, del preserbacino, il profilattico peri baci, che volendo ricorda molto il distanziamento sociale, l’isolamento da lockdown, quelle pratiche lì, di stampo concentrazionario, dura venti minuti. Credetemi, raccontare questa roba è peggio di un ciclo di chemio, che almeno dura tre giorni soli.

Max Del Papa, 7 febbraio 2024

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