Esteri

Il tafazzismo dei dazi

Trump © George Robinson tramite Canva.com

Martedì scorso la borse hanno vissuto una giornata molto pesante, con Piazzaffari che ha chiuso con un meno 3,41%, dopo che era arrivata a perdere oltre quattro punti percentuali. Tutto questo dopo che la settimana si era aperta in grande spolvero per i mercati finanziari, i quali evidentemente non si aspettavano che Donald Trump avesse rispettato alla lettera la sua promessa elettorale relativa alla sesquipedale idiozia di una guerra commerciale. Tant’è che ha scatenare la bufera è stata la decisione dell’attuale amministrazione statunitense di raddoppiare i dazi sulle merci cinesi e di introdurne di pesantissimi ai danni di Messico e Canada le cui esportazione di molti beni negli Usa subiranno una tassa del 25%.

Ora, come ha efficacemente spiegato Federico Fubini su La7, si tratta in piena regola di una vera e propria strategia di stampo tafazzista. Qualcosa che ci richiama alla mente un nostro proverbiale detto secondo il quale un certo signore, per far dispetto alla moglie, decide di punto in bianco di tagliarsi i cosiddetti.
Nel dettaglio, Fubini ha spiegato ai telespettatori il motivo per cui queste misure risulteranno controproducenti sia per le imprese americane e sia per i relativi consumatori, i quali pagheranno di più anche molti beni prodotti dalle aziende statunitensi, con l’aggravio di un inevitabile aumento dell’inflazione. Inflazione che lo stesso Tycoon si è impegnato a tenere assolutamente sotto controllo.

Il problema, che in estrema sintesi riguarda tutti i Paesi avanzati, essendo questi ultimi inseriti in un sistema economico integrato all’interno di una miriade di catene globali del valore, il giornalista fiorentino lo ha descritto con un esempio piuttosto comprensibile: “Gli investitori – ha esordito Fubini, riferendosi alla sfiducia che serpeggia sui mercati finanziari d’Oltreoceano – hanno capito che le politiche di Trump fanno male in primo luogo agli Stati Uniti. Fanno male a tutte le economie, ma fanno molto male agli americani. Ciò molto semplicemente perché – immaginiamo i dazi al 25% sul Messico – vuol dire che tutte le componenti della fabbricazione delle auto negli Usa diventano più care; una automobile diventa più costosa anche se prodotta negli Stati Uniti dato che stiamo parlando di assemblaggi. Ovvero un auto realizzata negli Stati Uniti in realtà è composta di pezzi che continuano ad andare da una parte all’altra della frontiera 10 volte prima di uscire dai cancelli della fabbrica.”

Analogo ragionamento Fubini lo ha poi espresso nei riguardi delle aziende farmaceutiche americane che operano in alcuni Paesi europei con un costo del lavoro conveniente e che spesso commercializzano negli States farmaci prodotti in Paese in via di sviluppo. Anche essi si troveranno gravati del pesante fardello imposto dall’attuale inquilino della Casa Bianca. D’altro canto un simile ragionamento serviva a suo tempo a smontare i teorici del ritorno alla nostra liretta, i quali immaginavano di rilanciare le esportazioni con le tanto decantate svalutazioni competitive. Tutto questo senza considerare che nel complesso il valore dei prodotti delle imprese italiane contiene circa il 70% di semilavorati comprati all’estero, e dovendoli pagare in valuta pregiata il loro costo subirebbe al contrario gli effetti della stessa svalutazione pseudo competitiva.

Ci piaccia o meno, questi sono i pregi e i difetti della globalizzazione, la quale consente di acquistare ogni ben di Dio a prezzi imparagonabili rispetto a qualche decennio addietro, ma nel contempo essa non può prescindere dal varo di accordi commerciali fondati sul libero scambio, mister President.

Claudio Romiti, 6 marzo 2025

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