Politica

Il trucco di Draghi per il doppio stato d’emergenza

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di Paolo Becchi e Giuseppe Palma

Non c’è due senza tre. Dopo ventisei mesi di stato di emergenza sanitario, peraltro prorogato anche oltre i limiti legislativi preesistenti, ora abbiamo non uno bensì due stati di emergenza riguardanti la crisi internazionale tra Russia e Ucraina. La cosa era sfuggita a molti, anche a noi a dire il vero. 

Il primo, dichiarato il 25 febbraio 2022, il secondo tre giorni più tardi, il 28 febbraio. Era troppo semplice concentrare tutto in una sola delibera, quindi il governo – per non sbagliarsi – ne ha fatte due. Lo stato di emergenza deliberato il 25 febbraio, in concomitanza con l’approvazione del decreto-legge n. 14/2022 (quello sull’invio di mezzi, equipaggiamenti e armi all’Ucraina), è stato dichiarato per la durata di tre mesi e riguarda l’“intervento all’estero in conseguenza degli accadimenti in atto nel territorio dell’Ucraina”. Il secondo, deliberato il 28 febbraio, dura fino al 31 dicembre di quest’anno e riguarda “l’esigenza di assicurare soccorso e assistenza, sul territorio nazionale, alla popolazione ucraina in conseguenza della grave crisi internazionale in atto”. Tre giorni fa il Consiglio dei ministri ha prorogato anche il primo fino al 31 dicembre. 

Ma perché addirittura due deliberazioni quando l’emergenza è la stessa (crisi internazionale Russia-Ucraina)? Il diavolo è nei dettagli. Il soccorso e l’assistenza in Ucraina (in sostanza gli aiuti alla popolazione civile) avviene in territorio ucraino, cioè i nostri aiuti (medici, infermieri, Croce Rossa etc.) devono necessariamente entrare in Ucraina, esattamente come prevede la delibera dello stato di emergenza del 28 febbraio (“assicurare soccorso e assistenza, sul territorio nazionale, alla popolazione ucraina”). Di contro, l’invio di armi, mezzi ed equipaggiamenti militari di cui al decreto-legge n. 14/2022 (convertito in legge n. 28/2022) non può avvenire con l’ingresso dei nostri militari in territorio ucraino altrimenti questo equivarrebbe ad  un atto di guerra nei confronti della Russia; pertanto, la delibera dello stato di emergenza emanata il 25 febbraio (ed ora prorogata fino a fine anno) prevede un generico “per intervento all’estero” e non direttamente sul territorio ucraino.

Questa proroga sino alla fine di dicembre (per ora) significa che il nostro coinvolgimento militare è destinato a durare nel tempo e quindi che di fatto il governo non lavora per la pace ma per la prosecuzione della guerra. E ovviamente il tutto senza che il parlamento possa dire mezza parola sull’invio di armi e su che tipo di armi, oltretutto per un tempo che in un primo momento era limitato a tre mesi, ora fino a fine anno, poi si vedrà. La legge di conversione del decreto-legge n. 14/2022, all’art. 2, parla di armi non letali (a scopo difensivo), mentre l’art. 2 bis parla di equipaggiamenti, mezzi ed armi la cui portata sia determinata da uno o più decreti del ministro della difesa di concerto con il ministro degli esteri, informando il parlamento con cadenza almeno trimestrale. Ciò ovviamente non autorizza il governo a non rispettare il dettato dell’art. 2 (armi non letali), ma la proroga dello stato di emergenza proprio su questo argomento ci fa pensare che l’esecutivo voglia spingersi verso un conflitto contro la Russia e non verso aiuti all’Ucraina di tipo difensivo e limitati nel tempo. Dopo l’incontro tra Biden e Draghi nei giorni scorsi alla Casa Bianca, premier e maggioranza – sulla base della netta contrarietà dell’opinione pubblica italiana ad un nostro diretto coinvolgimento bellico – hanno parlato della necessità di cercare la via della pace, ma poi, nei fatti, è stato prorogato quello specifico stato di emergenza che riguarda proprio l’invio di armi fino alla fine dell’anno. A parole vogliamo la pace, nei fatti lavoriamo per la guerra, altrimenti perché lo stato di emergenza deliberato il 25 febbraio, previsto inizialmente solo per tre mesi, viene ora prorogato fino al 31 dicembre? 

Per un certo periodo, dal 28 febbraio al 31 marzo, hanno convissuto addirittura tre stati di emergenza, quello sanitario e i due sulla crisi internazionale. Ora sono due e tutti e due in relazione al conflitto bellico in corso. In attesa di un altro stato di emergenza, in autunno, sulla sesta o settima ondata del virus (Omicron XVI, come i re) e sulla campagna vaccinale della quarta e quinta dose. Il limite legislativo dei 24 mesi che lo stato di emergenza incontra per effetto del D.Lgs. n. 1/2018 è stato ormai raggirato: ne faccio 26 per quello sanitario, poi non lo prorogo, salvo farne un altro in autunno di altri x mesi, in contemporanea a due altri stati di emergenza sulla guerra in Ucraina fino a fine anno ma anche dopo (le guerre si sa quando iniziano ma non quando finiscono). E non ci stupirebbe il fatto che, prima delle elezioni politiche del marzo 2023, qualcuno inizi a parlare esplicitamente di “stato di guerra”, così saltano pure le elezioni. 

Ormai Draghi fa tutto quello che vuole: se per assurdo decidesse di reintrodurre la pena di morte in caso di rivolta popolare, siamo sicuri che troverebbe la maggioranza parlamentare per farlo. Il tutto in nome della nuova emergenza sociale. Ieri quella sanitaria, oggi la crisi internazionale, domani chissà, forse la rivolta sociale, o forse più probabilmente il caos non più generato dal lockdown ma da un blackout totale. Non si governa più nello stato di diritto – che ha le sue garanzie e i suoi limiti costituzionali -, ma nello stato di emergenza permanente, in nome del quale è possibile neutralizzare la Costituzione.

Dopo il fallimento della vaccinazione di massa – si continua a morire e a contagiarsi di Covid nonostante il 90% della popolazione over12 sia vaccinata -, Draghi ci sta portando ora verso un nuovo fallimento. E qui a protestare non sono i no-vax, ma la stragrande maggioranza degli italiani (circa il 78% secondo gli ultimi sondaggi) che dopo aver patito per oltre due anni i soprusi più violenti vorrebbe ora solo una cosa: vivere finalmente in Pace. Con la P maiuscola.

  

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