Esteri

Il vero errore degli Usa con la Russia - Seconda parte

L’invasione russa è da condannare ma l’imperialismo di Putin non nasce per caso. La causa sono anche le mancanze Usa

La costante dell’atteggiamento americano verso la Russia nel trentennio unipolare è la svalutazione di potenza, la convinzione che il rivale avanzi pretese esagerate, dissonanti con la sua reale forza economica e sociale: di conseguenza gli Stati Uniti non hanno remore ad agire con iniziative ostili che presumono prive di costo. Anche con la Cina l’atteggiamento di base è la svalutazione, però declinata in un contesto ben diverso: non la politica, con i suoi risvolti di rango nella gerarchia degli Stati, ma l’economia in cui a Pechino non sono posti limiti (regole, controlli). La Cina di Deng non si risente, anzi gioisce perché ciò permette di accrescere produzione e spazi di mercato. Nella prima metà del trentennio nessuno contesta la svalutazione: la Russia perché non può, la Cina perché non vuole.

Il ruolo di Trump

Nella seconda metà l’ostilità con la Russia si stabilizza, mentre con la Cina i rapporti s’immergono nell’incertezza quando Xi svela che il dirompente progresso economico è uno strumento per accelerare l’ascesa verso il prossimo primato mondiale: Obama cerca per un po’ di sminuire la cosa, poi la rende un tema retorico (pivot to Asia), infine si rassegna all’inazione. Trump invece innalza il tema a priorità e cambia l’ordine della politica mondiale centrandolo sulla rivalità sino-americana: ma la svolta giunge molto in ritardo e i suoi costi sono elevati causa l’intreccio quasi simbiotico delle due economie.

La sottovalutazione dei rivali effettivi, perché o quiescenti (Cina) o sofferenti (Russia), dà campo, dopo l’11 settembre, a risposte smisurate, poco dotate di realismo. Ragioni strategiche impediscono di mettere nel mirino il reale centro di responsabilità degli attentati, ovvero l’Arabia Saudita, e quindi elevano a bersagli, sminuendo i problemi di contesto, surrogati improbabili prescelti per ragioni retoriche (immagine da lucidare) tra le quali spiccano i temi della lotta al terrorismo (Afghanistan, Iraq) e della democrazia da esportare (primavere arabe e colorate). Entrambi i temi hanno contenuti imprecisi e non includono scopi strategici chiari. Gli esiti sono drammatici: guerre civili prolungate che danno spazio all’espansione russa (Libia, Siria), sconfitte patenti (Afghanistan), azzardi molto rischiosi (l’Egitto finito in mano ai Fratelli musulmani e poi parzialmente rimesso in campo occidentale da un colpo di Stato), una generale caduta dell’influenza e della credibilità degli Stati Uniti.

Il disordine che si installa per un decennio nell’area compresa fra Tunisia e Afghanistan avvia un duplice sviluppo di lungo periodo: sul piano strategico va in crisi il rapporto con alleati storici come la monarchia saudita e gli emirati (Trump, forgiando i fondamentali accordi di Abramo aveva creato una fase di grande potenziale sviluppo, ma Biden rapidamente riporta tutto nel caos); sul piano ideologico acquista inedito slancio, trainato dall’incremento delle migrazioni, la visione nazionalista, da tempo marginale, e ripiega il tema della democrazia nel mondo. La sottovalutazione – dei rivali o del contesto – contraddistingue l’epoca unipolare; in via speculare segnala una sopravvalutazione del potenziale politico degli Stati Uniti e del mondo occidentale.

La fragilità dell’Occidente

Tuttavia nella parte finale dell’epoca unipolare sale in primo piano un fattore drammatico che deprime l’idea della superiorità americana (ma anche europea) e le toglie la base vitale: la sprezzante condanna dei principi e dei motivi che nei secoli hanno guidato l’ascesa dell’Occidente (cancel culture e non solo). Superiorità e autoflagellazione si contraddicono, levano forza alle pretese ideologiche delle democrazie e le fanno sembrare solo retorica. A marzo 2021 un incontro in Alaska fra il segretario di Stato Blinken e il responsabile esteri del Partito comunista cinese mostra con fragorosa evidenza la fragilità della lezione occidentale: a Blinken che fa rimostranze su Hong Kong, uiguri e diritti umani Yang Jiechi replica citando il seriale autobiasimo americano, da Black Lives Matter ai crimini coloniali. Gioco, set, partita.

Sta per finire un ordine mondiale, il secondo formatosi dopo la fine della guerra mondiale, e non è ancora apparso quello nuovo. I suoi componenti principali sono delineati: la crescente potenza cinese, l’aggressivo revanscismo russo, la stabilizzazione mediorientale basata sull’alleanza fra Israele e monarchie del Golfo (con l’Iran nella parte di potenziale miccia). Quel che non appare chiaro invece è il ruolo degli Stati Uniti immersi tuttora in quella confusione strategica che, con la parziale eccezione di Trump, dura dai tempi di Clinton (tre presidenze a due mandati più Biden).

Antonio Pilati, 20 marzo 2022

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