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La balla del “pagare tutti per pagare meno tasse”

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Modernizzazione dalle parti governative significa cinesizzazione. Ne abbiamo avuto un’ennesima conferma ieri quando, con il suo pomposo e vacuo linguaggio, il presidente del Consiglio ha annunciato, nel corso del Question Time in Parlamento, di star lavorando, con la sua compagine, alla “madre di tutte le riforme”: la semplificazione, in primo luogo quella fiscale.

Ora, ad un liberale, già solo il sentir parlare un premier di un governo di sinistra di tasse, fa venire l’orticaria. Non perché le tasse non debbano esistere, o vadano evase, ma perché da quelle parti politiche la tassazione viene concepita come lo strumento più semplice per sottrarre risorse a chi le produce e, attraverso le mille mediazioni della pubblica burocrazia, allocarle altrove e mantenere in piedi una macchina inetta e inefficiente quale quella statale (fatta da clientes che elettoralmente hanno un peso).

Assumendo un carattere vessatorio, la pressione fiscale eccesiva finisce per generare, accanto a una grande evasione criminale, che va combattuta ma che non si ferma certo davanti a stratagemmi legislativi, una microevasione difensiva opera di poveri cristi che devono pure arrivare con in tasca qualcosa a fine mese. Ora, questa microevasione non va assolutamente giustificata, ma compresa sì nei suoi fattori scatenanti in modo da valutare secondo giustizia i modi per prevenirla. Ovviamente, ciò presupporrebbe che lo Stato si mettesse dalla parte dei cittadini, in primo luogo di quelli che “producono”, e non di sé stesso, il che è a dir poco irrealistico. Anche perché una riconsiderazione complessiva del patto fiscale presupporrebbe uno studio e una volontà politica che oggi non è certo dato intravedere.

La via più facile, la scorciatoia, è allora quella di eliminare a valle e non a monte il problema, mostrando ancora una volta il volto arcigno e severo di uno Stato vessatorio. Che è la via fin qui seguita in Italia, ma che, attenzione, non è la strada che vuole intraprendere Conte: egli vuole raggiungere lo stesso scopo ma, dice, in modo “gentile”, cioè con abbondante uso di lubrificanti. Per intanto, egli avverte che non si tratta di “fare la riforma in pochi giorni”, e ciò sottintende che sarebbe “criminale” se qualcuno, a lui che non ha forza parlamentare, si sognasse di dare nelle prossime settimane il benservito.

Poi, dichiara che il suo obiettivo è “di far pagare meno ma far pagare tutti”, quasi come se il nostro Stato potesse, con i suoi fondamentali, fare sconti in questo momento sulle risorse da intascare. In ogni caso, Conte dice di star valutando (adelante plano, ovviamente) interventi sulla domanda, che ovviamente in tempi di crisi, tende a decrescere vertiginosamente: la gente non spende per paura del futuro, e in questo modo finisce per accrescere la possibilità che la crisi degeneri compromettendo ancora di più l’avvenire proprio e dei propri figli. Un circolo vizioso.

Ed ecco allora la genialata: “potremmo – dice il premier – concedere incentivi legati ai pagamenti digitali in linea con il piano cashless”. Di cosa si tratta non è difficile scoprirlo, perché già durante i famigerati Stati Generali il nostro Presidente del Consiglio aveva parlato di “transizione gentile verso il cashless” come improrogabile esigenza di modernizzazione. Essa, esplicita ora, passerebbe dall’abolizione dell’uso del contante (il cui tetto di uso è stato intanto abbassato) e dalla tracciabilità digitale di tutti i pagamenti (da favorire per il momento con incentivi fiscali al loro uso). Ed ecco che fa capolino la Cina. È infatti proprio l’ex impero Celeste che ha lanciato con successo da qualche anno la campagna di una cashless society, cioè di una società ove le transazioni sono tutte digitali e tutte a disposizione delle autorità costituite. Il che in sostanza equivale a un controllo sociale dello Stato sui cittadini, sulla loro vita privata e sulle “deviazioni” dalla “retta via” indicata dallo Stato-Partito per realizzare i suoi scopi (tutto “gentilmente”, è ovvio, almeno fino a quando è possibile, come il caso di Hong Kong dimostra).

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