A sorpresa, e in gran segreto, si parla di un Conclave che, più che dallo Spirito Santo, sembra ispirato dallo scudo crociato: imbastito come un congresso della Democrazia Cristiana, con tanto di ticket preconfezionato e delfino designato. Con un accordo che, se reggerà, avremo fumata bianca prima di sabato. Altrimenti, se le due anime non riescono a trovare un’intesa, diventerà una ‘lotteria Santa’. Nel mentre Pietro Parolin, se Papa sarà, ha già un posto da offrire: il suo.
Non solo perché è l’unico modo per colmare quel vuoto carismatico che ancora lo separa dal quorum dei due terzi, ma anche perché la prassi – non scritta, ma rigida come un dogma – impone che chi sale al soglio pontificio mantenga il Segretario di Stato per almeno un anno. Per questo ogni porporato con ambizioni o visioni si domanda non solo chi sarà Papa, ma chi governerà la Segreteria di Stato. E se Parolin ce la farà, la risposta sarà ancora più delicata: perché il nuovo numero due, nei fatti, sarà il volto visibile del numero uno. Il gestore, il controllore, il garante.
Proprio come accadde, in tempi molto meno conciliari, con il Segretario di Stato francese Jean-Marie Villot, mantenuto da Paolo VI, da Giovanni Paolo I e da Giovanni Paolo II come uomo di garanzia, finché non fu il momento di cambiare la storia. Ecco, oggi Parolin cerca un nuovo Villot. Ma non francese. Qualcuno che gli porti quei quaranta voti che ancora gli mancano, senza costringerlo a promettere troppo né a scendere a patti con i burkiani intransigenti. Se non raggiunge il quorum subito, il Conclave diventa appunto una “Santa lotteria”. Ha bisogno perfino di un conservatore sobrio, straniero, con esperienza, e possibilmente già rodato nella diplomazia ecclesiale. E il nome che circola, sempre più insistente, è quello di Péter Erdő. Talmente insistente da spingere – in maniera del tutto inusuale e addirittura su X – lo stesso ambasciatore ungherese presso il Vaticano, Eduard Habsburg, a smentire ogni intesa. Insomma: un Erdő — per dirla alla Claudio Scajola — «a sua insaputa».
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Ungherese, canonista, settantunenne, non un curiale puro ma abbastanza vicino al Palazzo da saperci stare, con un rapporto d’amicizia consolidato con il Segretario di Stato. Studente e pupillo a Roma del grande giurista cattolico Gabrio Lombardi, ratzingeriano nella forma più alta: quella che parla latino e ascolta il silenzio, non quella che agita il Rosario e insulta il Papa su YouTube. Erdő è il volto accettabile della restaurazione, il garante dottrinale che può portare a Parolin una parte dell’Est Europa, diversi africani e forse anche qualche tedesco spaventato dal Sinodo liquido. Non è divisivo, non è un agitatore. Ma ha i numeri per diventare ciò che Parolin non è: una rassicurazione per chi teme che un altro Papa italiano significhi solo Curia 2.0. Il ticket Parolin–Erdő funziona proprio perché non entusiasma nessuno, ma fa paura a molti meno. E in Conclave, a vincere non è chi accende i cuori, ma chi spegne le ostilità.
Accanto a Erdő, Parolin avrebbe già individuato il suo sostituto alla Segreteria di Stato: monsignor Gabriele Giordano Caccia, attuale Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite. Con una lunga esperienza diplomatica e una profonda conoscenza della Curia romana, Caccia è considerato l’uomo giusto per garantire continuità e rassicurare le diverse anime del Collegio cardinalizio. La sua nomina segnerebbe anche la fine dell’incarico per l’attuale Sostituto per gli Affari Generali, monsignor Edgar Peña Parra, la cui gestione è stata oggetto di critiche, soprattutto in relazione alla pasticciata – per essere benevoli – vicenda Becciu.
Intorno a questo asse si stanno costruendo le prime promesse. La Dottrina della Fede, per esempio, non finirà a un sociologo argentino o a un missionario sinodale, ma a un conservatore affidabile: i nomi del cardinale Willem Jacobus Eijk (Paesi Bassi) o di Malcolm Ranjith Patabendige Don (Sri Lanka) circolano come offerte simboliche per blindare l’ortodossia senza scatenare l’Inquisizione. Potrebbe tornare ad avere un ruolo di rilievo il cardinale Raymond Leo Burke, il dissidente, il leone ferito, che non ha mai piegato la testa di fronte alle bizzarrie di Papa Francesco. Un modo per dire che il tempo degli scontri è finito e ora si torna a governare, anche coi nemici; e che più che al leader cinese Xi Jinping si guarda ormai a Donald Trump.
Il resto dei dicasteri si gioca tra nomi già scritti e promesse da formalizzare. Al cardinale Luis Antonio Tagle, amatissimo in Asia, potrebbe toccare un ruolo educativo o simbolico, ma lontano dai nervi scoperti della liturgia e della morale. Francesco Moraglia, se creato cardinale, potrebbe finire alla Congregazione per il Clero o al Tribunale della Segnatura Apostolica, con il consenso dei ratzingeriani istituzionali. Paul Richard Gallagher, anglosassone, è perfetto per tenere insieme le relazioni internazionali senza ambizioni da pontefice ombra.
Tutto, insomma, ruota attorno al nome di Erdő. È lui la carta che Parolin può calare sul tavolo con un messaggio chiaro: “Io governo, lui custodisce la dottrina. Io rappresento il centro, lui garantisce la continuità.” In tempi di stanchezza e paura, può bastare. Non sarà il pontificato dei sogni, ma potrebbe essere quello della tregua. In tempo di marketing: un usato sicuro.
Luigi Bisignani, 5 maggio 2025
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