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Nel 1989 finiva il comunismo. Ma non si celebra

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Ricordate le celebrazioni dei cinquant’anni dal 1968? Cominciarono addirittura nel 2017 e durarono ininterrottamente dal 1º gennaio al 31 dicembre 2018. I rivoluzionari di allora, oggi seduti su comode poltrone specie nel mondo dell’informazione, si sono auto-celebrati senza alcun ritegno.

Gli italiani, che si ricordavano un clima opprimente di intimidazione fisica e intellettuale, sono venuti a sapere che il Movimento studentesco era invece libertario. Una evidente falsità. Ma perché rovinare un commovente festino tra reduci con la verità?

Nessuno invece ha pensato di celebrare i trent’anni dal 1989. Eppure il 1989 non ha nulla da invidiare al 1968. Nel 1989 la «nuova» Cina rivela il suo vero volto massacrando i manifestanti in piazza Tienanmen a Pechino. Nel 1989 il comunismo finisce male in tutta Europa, con rivoluzioni di velluto (Varsavia, Praga e Budapest) o violente (Bucarest). Il culmine è il crollo del Muro di Berlino che porterà alla riunificazione della Germania. Questa non è neppure l’unica rivoluzione del 1989. Infatti l’informatico britannico Tim Berners-Lee del Cern in marzo propone un progetto di ricerca poi noto come World Wide Web…

Torniamo alla politica. Marco Faraci su Atlantico, la rivista on line di Federico Punzi, Daniele Dell’Orco e Daniele Capezzone, apre il dibattito con un interessante articolo sulla questione. Il decesso del comunismo «è stato il trionfo più netto ed incontrovertibile del modello politico, economico, sociale e culturale occidentale». Eppure nessuno ne parla. Non ci sono speciali in televisione, non ci sono libri, non se ne discute sui giornali, non c’è alcun riferimento nel dibattito pubblico. E questo in un Paese rivolto al passato come il nostro, ancora fermo alla diatriba ormai surreale fascismo-antifascismo.

La sinistra non ha voglia di rivangare. Dovrebbe ammettere di aver sbagliato tutto e di aver sostenuto per decenni regimi tirannici. L’immagine dei comunisti italiani campioni della democrazia si rivelerebbe per quello che è: propaganda truffaldina. Il comunismo era omicida e non aveva niente di nobile. Il mondo della cultura, corrotto fino al midollo, ha imposto però la distinzione tra socialismo (grande idea) e socialismo reale (pessima realizzazione).

Legioni di storici e politologi hanno dimostrato che il comunismo conduce sempre a regimi polizieschi e incapaci di competere economicamente. L’idea quindi era sbagliata. La mentalità tutto sommato favorevole a un regime fondato sulla schiavitù è sopravvissuta perfino alla caduta del Muro. Questo è il tempo dei socialisti umanitari, che amano o fingono di amare tutte le cause disperate del mondo per insinuare un dubbio: se possiamo, attraverso l’accoglienza e la cooperazione, salvare i «miserabili» del Terzo mondo, perché non estendere tale piano anche a coloro i quali vivono in povertà entro i confini della nostra ricca società? È il ritorno dell’utopia sconfitta nel 1989. L’utopia, scacciata dall’Europa, ha fatto il giro del pianeta, si è ritemprata ed è tornata a casa. Il «socialista umanitario» ha imparato la lezione. Per vincere, la rivoluzione deve essere buona, non deve fare paura.

E la destra? Tace. Specie la destra liberale che vive un momento contraddittorio. Nel 1989 la vittoria del modello occidentale, libero mercato e democrazia, sembrava totale. Il politologo Francis Fukuyama, per descrivere la situazione, coniò un’espressione divenuta celebre: «La fine della Storia». Il risveglio fu brusco. Il mondo si rivelò più vario di quanto previsto. Il terrorismo islamico diventava una minaccia globale e proponeva una società fondata sulla legge divina. I Paesi islamici non rinnegarono il mercato pur senza sposare la democrazia. Le primavere arabe si rivelarono fuochi di paglia. La Russia presto si ripropose come potenza imperiale desiderosa di recuperare le proprie tradizioni religiose e politiche. La Cina si inventò il capitalismo di Stato. L’India si preparò a un futuro di potenza regionale recuperando il nazionalismo.

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