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Parmalat e quella lezione al Paese

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La storia di Parmalat, la prima azienda agroalimentare italiana che impiega ancora mille collaboratori, dovrebbe svegliarci. Come ben sapete, otto anni fa fu sfilata a Enrico Bondi, grazie ad un assegnuccio da 4 miliardi. A beccarsi la preda, fu un gruppo familiare francese. Oggi la famiglia Besnier, come ha scritto il Sole24 Ore un paio di giorni fa, ha intenzione di concludere l’opera: azzerare il quartier generale di Collecchio, patria di Tanzi, e spostare tutto a Laval, il villaggio francese da cui provengono. Trecento chilometri da Parigi e neanche 50mila anime. I Besnier non pubblicano bilanci, si fanno, raramente, vedere alla partita della loro squadra di serie B, non circolano molte foto che li ritraggono, sono ricchissimi e si portano tra pochi giorni tutto a casa.

Parmalat non solo non sarà più quotata, pazienza, ma non esisterà più come entità giuridica: fusa in Lactalis. Che nel frattempo ha piazzato i suoi manager (tutti francesi) alla guida delle nove divisioni operative in cui verrà organizzato l’intero gruppo. Insomma, dopo otto anni, Parmalat anche formalmente non esisterà più. Fino ad ora i francesi hanno licenziato praticamente nessuno e probabilmente con la prossima riorganizzazione usciranno non più di un centinaio di persone (comunque il dieci per cento della forza lavoro italiana). Uno stile molto diverso da quanto hanno adottato le multinazionali, sempre francesi, della moda: hanno comprato una caterva di marchi italiani, senza spostare una virgola della loro italianità. Anzi sfruttandola al massimo sia nella produzione sia nello stile per affermarne il prestigio e il successo internazionale (anche se bisognerà accertare bene se non hanno fatto i furbetti con il fisco). Atteggiamenti padronali diversi, per settori che forse non sono comparabili: sulla moda ci sono margini cicciotti, sull’alimentare striminziti. Ma tant’è.

Ebbene ritorniamo al punto di partenza e cerchiamo di capire perché dovremmo svegliarci e ragionare, senza piagnistei, sul latte, è il caso di dirlo, versato. La Parmalat, ovviamente, non è stata sempre francese. E non intendo all’epoca di Tanzi e dei suoi trucchi contabili. Fino alla primavera del 2011, quando comparvero i Besnier, era lì quotata in Borsa, con 1,5 miliardi di cassa, derivante dalle cause di risarcimento intentate da Enrico Bondi, senza un azionista di riferimento che comandasse. Era una bella preda che nessuno dei nostri imprenditori voleva conquistare. Pensavano di tenerla là in caldo, chissà per chi e per cosa. La famiglia francese ci ha riflettuto molto e compiendo l’acquisizione più importante della sua storia, ha portato a casa il bottino e lo gestisce, legittimamente, come crede. Parmalat d’altronde è un’impresa che vende beni di largo consumo: difficile anche per il più incallito protezionista della nostra epoca pensare ad una diga per «fermare lo straniero». E soprattutto in mancanza totale di imprenditori italiani interessati. Oggi piangiamo, ieri ballavamo intorno alla preda.

Ecco, in giro di questi tempi ci sono un bel po’ di Parmalat. Per carità nessuno dice che si debba piegare il mercato: alle volontà di chi, poi? Basta essere intellettualmente onesti e sapere che là fuori ci sono un bel po’ di cartelli vendesi: Carige, una banca che nonostante tutto ha ancora un buon grado di fidelizzazione; Astaldi che ha un buon portafoglio ordini, una grande storia, ma una sofferenza finanziaria pazzesca; Ferrarini, un marchio premium, che però i legittimi proprietari non vogliono spezzettare; Tim che dalla scalata di Colaninno in poi è in balia più della sua governance che del traffico che genera. Ci auguriamo solo che non finiscano tutte come Parmalat.

Nicola Porro, Il Giornale 26 gennaio 2019

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