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“Perdonami compagno”. Storia di un diario dal fronte

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In quella fossa, ginocchioni nella mota, c’eravamo tutti: io, la collega e i ragazzi. Eravamo lì con Erich Maria Remarque, terrorizzati dalle granate, dai proiettili e pronti a tutto pur di salvare la pelle. Martedì, alla quinta ora, c’era silenzio; per tutto il racconto siamo rimasti assorti e in comunione. Una condivisione eccezionale come solo in classe, talvolta, accade.

Erano pagine tratte dal romanzo sulla Grande Guerra “Niente di nuovo sul fronte occidentale” in cui l’autore racconta un’esperienza autobiografica fortissima. Durante un attacco francese, se ne sta curvo in una grande buca piena di fango in cui, spaventato a morte, cerca riparo. Esplosioni e raffiche di mitraglia affollano il cielo scuro, impedendo qualunque fuga, finché gli cade addosso un corpo pesante. È un nemico senza volto. Erich è terrorizzato e colpisce, lo pugnala pazzamente tre volte, finché il corpo sussulta, si affloscia e s’insacca. Non è ancora morto e lo capisce da quel rantolio continuo, che comincia a torturarlo inesorabilmente. Si ritira nell’angolo della fossa, ma non può andar via, fuori di là è morte certa e si trova costretto a condividere lo spazio e il tempo con l’uomo morente a causa sua. A mano a mano che il chiarore mattutino svela le forme, avviene una progressiva comprensione di ciò che ha compiuto e di chi ha davanti: un semplice soldato atterrito come lui.

Non può sopportare di vederlo in quello stato e gli si avvicina per dargli un po’ di sollievo, gli sgancia il bavero e lo adagia più comodamente “Ma no, ti voglio soccorrere, compagno, camarade, camarade…” Come vorrebbe tornare indietro! Come vorrebbe essere lui quello morente! “È la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che io possa vedere da vicino, e la cui morte sia opera mia”. Lo guarda da vicino e, in un corpo a corpo di anime, si specchiano l’uno nell’altro: ogni suo respiro gli strappa il cuore finché, alle tre del pomeriggio, muore.

Gli chiude gli occhi, sono castani; i capelli neri con qualche riccio sulle tempie, la bocca è carnosa e tenera sotto i baffi; un po’ arcuato il naso, bruna la pelle. “Compagno, io non ti volevo uccidere […] Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel cervello che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. […] Perdonami compagno! Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi. […] Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi, queste uniformi, potresti essere mio fratello”. Quando la vita è ai minimi termini non ci sono filtri né pregiudizi, la relazione è autentica. Eppure, già nella nostra guerra quotidiana meno truce, ma più subdola e piena di inutili formule, è possibile questo allenamento al vero, anche per i miei ragazzi.

Fiorenza Cirillo, 4 febbraio 2021

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