Negli scorsi giorni abbiamo assistito in Italia all’ennesimo dibattito-fuffa su fantomatiche imposte patrimoniali da introdurre, a seconda dei casi, nel nostro Paese, a livello europeo o – addirittura – su base mondiale (l’ambito galattico ci è stato per ora risparmiato). Come nelle precedenti occasioni, il chiacchiericcio ha avuto un inizio in sordina, si è poi sviluppato, ha avuto qualche picco e si è infine eclissato, come avviene con ogni dibattito sul nulla che si rispetti (si fa per dire).
Nel frattempo, nel mondo reale – prima, durante e dopo questa discussione insulsa – persone fisiche e imprese continuano a pagare una patrimoniale che di virtuale ha ben poco, colpendo in modo massiccio i beni immobili. Il riferimento, naturalmente, è all’Imu, l’imposta introdotta dal governo Monti in sostituzione dell’Ici. Dal 2012, l’Imu ha pesato su individui, famiglie e imprese per quasi 300 miliardi di euro. È un’imposta onerosa e iniqua, che sempre più frequentemente colpisce soggetti che, oltre a non trarre alcun frutto dal loro bene, non hanno più neanche un reddito da lavoro dal quale ricavare le risorse per pagare questa vera e propria “patrimoniale diffusa”.
Altro che chiacchiere su future, ulteriori (anche se improbabili) patrimoniali. Occorre iniziare a ridurre il peso di quella che c’è, vale a dire di un tributo che punisce il risparmio e danneggia l’economia. Si potrebbe iniziare eliminando l’Imu sulle case date in affitto con i contratti “a canone concordato”, per estendere l’offerta abitativa, o sugli immobili dei piccoli centri, per agevolare la rinascita di borghi e aree interne. Oppure sui troppi negozi sfitti, per dare un po’ di ossigeno a chi ne sopporta solo gli oneri.
Sulla scelta delle priorità si può ragionare, ci si può anche sbizzarrire, c’è solo l’imbarazzo della scelta, ma anzitutto servirebbe la volontà politica. E quella, ancora, non la vediamo.
Giorgio Spaziani Testa, 20 febbraio 2025
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