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Quei 50 miliardi per le imprese che nessuno usa

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Tecnicamente si chiama Patrimonio destinato. Non vi spaventate la cosa non è complessa in sé, ma difficile come tutte le norme previste dai decreti emergenziali del governo Conte. Sono 50 miliardi, ben di più di quanto potremmo raccattare dal Mes, che sono a disposizione delle imprese non finanziarie italiane. Un mucchio di quattrini derivanti dal Tesoro italiano, cioè roba nostra, e che la Cassa depositi e prestiti, la Cdp, potrebbe indirizzare verso l’economia reale. E di cui, misteriosamente, nessuno parla. Tecnicamente nascono dal cosiddetto Temporary framework europeo e cioè l’allentamento delle normative sugli aiuti di Stato.

Per un momento lasciamo perdere le implicazioni di politica economica (usare soldi pubblici per aiutare aziende private) che pure sono importanti, e vediamo come dovrebbe funzionare. Questo enorme patrimonio è a disposizione delle aziende italiane che fatturano più di 50 milioni di euro: si tratta di circa 4 mila imprese. Quotate sul mercati regolamentati o meno. Gli strumenti utilizzabili sono riducibili a tre famiglie: ingresso nell’azionariato delle imprese che ne facciano richiesta, prestiti, e strumenti ibridi tipo obbligazioni che poi si possano convertire in azioni. Il patrimonio è del Mes, e la gestione sarebbe di Cdp equity. Il braccio armato della Cassa, che già oggi detiene partecipazioni importanti (direttamente o indirettamente): dall’Eni alla Saipem, da Trevi ad Ansaldo energia.

L’erogazione di queste risorse può essere fatta in vari modi e con varie costrizioni per chi li riceve: ad esempio la rinuncia al dividendo per gli azionisti. Non è detto che la Cassa entri nella governance delle società coinvolte, ma non è neanche escluso. L’idea era quella, in un momento di temporanea crisi, di usare un pezzo di patrimonio pubblico, in modo temporaneo, per evitare che salti o scompaia un comparto industriale. Interventi di questo tipo hanno ovviamente dei limiti, bloccano il mercato, cristallizzano le potenziali inefficienze e capacità di reazione. Ma il campo di gioco è comunque falsato: e non solo in Europa. Considerazioni queste, che in questa zuppa vogliamo per un momento tralasciare: primum vivere deinde philosophari.

Resta la grande amarezza di questa costruzione fatta con i piedi. Il primo peccato è all’origine, per così dire. Pensate un po’ voi, nella sua ideazione comunitaria vi è un principio diabolico: le aziende che possono accedere a questi aiuti dovrebbero dimostrare non solo che i loro problemi derivino dal lockdown (Alitalia dunque no) ma che se non ottenessero il prestito o il patrimonio, fallirebbero. Vi immaginate un po’ voi che razza di storia è questa: ottengo soldi pubblici solo se dimostro che altrimenti salto. E se poi salto? O sei poi non li ottengo, tutti sanno che sto per morire? E così via, in un rincorrersi di prove diaboliche e ben poco economiche.

Ma ovviamente il gold plating (il rivestimento fintamente dorato che facciamo delle genialate comunitarie) si nutre di altri passaggi tipicamente oscuri tipici delle norme italiane. Il modello di «patrimonio destinato italiano», che sulla carta ha un senso se si realizza velocemente soprattutto in virtù della criticità finanziaria che dovrebbe caratterizzare chi vi accede, è in attesa di tre via libera: quello inevitabile della Commissione europea, evvabè, e poi quelli del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

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