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Roma e il Rolex, in difesa del lusso

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La vicenda che ha avuto per protagonista Romano Pastore, un giovane candidato di Azione al comune di Roma, accusato sui social di avere mostrato in una foto un orologio di valore, si presta a molte considerazioni di ordine filosofico, e di riflesso politico. Come è noto, il La è stato dato dalla psicologa junghiana (sic!) Barbara Collevecchio, che scandalizzata, o finto scandalizzata, ha commentato che “bisognerebbe educare i giovani ai valori genuini non ad indossare Rolex e vestirsi da giovani vecchi wannabe renzini” (il riferimento era al fatto che Pastore, che ha una faccia da giovane pulita, ha scattato la foto ad una festa organizzata dall’ex segretario del Pd a conclusione di una scuola estiva di formazione politica).

Fatta la tara dell’ostilità politica che si legge in filigrana nelle parole della Collevecchio, e a cui ha fatto seguito una vera e propria canea di indignati, non si tratta di una polemica nuova: il lusso è stato sempre oggetto di deplorazione, o semplice “invidia sociale”, da parte della sinistra dura e pura. Dietro la polemica si leggono poi anche, in filigrana, concezioni del mondo antitetiche a quelle che si sono affermate in età moderna e che hanno dato tono o spessore al liberalismo politico che è la cifra di questa età. Il lusso, in verità, è sempre esistito, ma è stato sempre stato appannaggio di nobili ed aristocratici, di chi per discendenza naturale apparteneva ad una classe chiusa di privilegiati. Oppure era riversato nelle grandi architetture pubbliche di ordine religioso, soprattutto ovviamente chiese e cattedrali. Con la modernità e l’ascendere di una classe sociale che fondava sull’intraprendenza e gli affari la propria ricchezza, e cioè la borghesia, il lusso ha intensificato, per così dire, i suoi aspetti simbolici, venendo sfoggiato ed ostentato come indicatore di un ottenuto successo mondano. Visto dall’ottica dell’etica tradizionale, esso era esecrabile per almeno due motivi: da una parte, perché segnalava una ricerca del superfluo e dell’inutile in barba a tutti coloro, che meno fortunati o meno capaci, non riuscivano a mettere insieme, come suol dirsi, il pranzo con la cena; dall’altra, perché nel suo essere esibito sfacciatamente e non essere semplicemente posseduto, segnalava un animo poco nobile che non si accontentava di possedere ma voleva mostrare privilegiando l’essere all’apparire. Da qui tutta la retorica della “genuinità” e della “autenticità” che si legge in controluce ancora nelle parole della Collevechio. Insomma una “passione” malvagia, un “vizio” da condannare e, nella misura del possibile, estirpare.

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