Cultura, tv e spettacoli

Sanremo, duetti e non solo: quello che non hanno il coraggio di dirvi

La serata delle cover la più attesta? E ti credo: coi duetti almeno si capiscono i testi delle canzoni. Ma questo è il festival del servilismo

amadeus sanremo

Sto dietro al Festival dal letto, la sera, e dalla poltrona dell’ospedale, la mattina e ricordo i tempi del roof, il tetto sull’artista dove hanno messo la sala stampa piena farcita di giornalisti o presunti tali, dodici, quindici ore al giorno, ho letto che nei bagni si consumerebbe ogni genere di perversione più o meno artistica, sarò sfigato io che in anni ci ho trovato solo un convulso scorrere di prostate, inclusa la mia. E non ne ho nessuna nostalgia. Perché i giornalisti, molti presunti, a Sanremo sono di due specie: vecchioni con la verità in tasca, che si fanno vedere quel minimo per farsi vedere, e seguono il 90% dallo schermo della stanza d’albergo, e cacciatori di dote che stanno lì a oltranza, seguono tutto del megaschermo del roof e sospirano: ma chi me lo fa fare. Ma non rinuncerebbe mai, piuttosto fanno fuori la stirpe al completo. Tutti accomunati da una spocchietta fra l’irritante e il commovente, ma, datemi retta, di musica ne masticano poca. Difatti danno i voti per simpatia, intimità o look. E quello che scrivono è regolarmente l’opposto di quello che dicono lì in sala stampa.

Ne ho visti picchiarsi per un pupazzetto di Carlo Conti da usare come portachiavi. Ne ho visti far la fila genuflessi all’altarino di turno, e dopo un po’, miracolo!, avevano cambiato vita. Tanto volevano la divinità presidenta del Consiglio, uno dei vezzi lassù al roof è di volere tutti presidenti del Consiglio, tutti, Baglioni, Ama, Ciuri, Chiara Ferragni, l’esaltazione, oh, così italica, del “se ce sarebbe voi, dottò”, ricordate la perculata di Giorgio Bracardi, “se ce fosse Pippe Baude a comandà”: non era una perculata a Baude, ma ai giornalisti, e non era neanche una perculatio, era l’inno nazionale.

Sanremo Festival del servilismo. Come sempre dove c’è aroma di regime. Non c’era una volta la serata dei duetti, poi qualcuno se la inventò, forse proprio Pippe Baude ma non vorrei sbagliare, comunque adesso è la più attesa e inamovibile quella del venerdì e per ottime ragioni. Copre l’intera settimana, senza più buchi, e la copre egregiamente, richiama in servizio la di turno stravecchia Gloria, ahaha, chiesa di campagna, Gloriah, canzoni reali, non le vomitate di gatto che si sentono nel resto della settimana, con cantanti chi più chi meno capaci di cantare, non i disagiati bofonchianti, i molluschi, le Pigalle e gli scappati da una sauna gay d’oggidì. Insomma il venerdì dei duetti nobilita il Festival, gli fornisce una ragione plausibile e tutti son contenti: la sovrastruttura, la raccolta pubblicitaria (è una serata infinita, estenuante, quindi si presta ad essere rimpinzata di spot, di réclame, di marchette), i senatori possono giustificare la loro presenza, con gli annessi e i connessi del passaggio televisivo, del lancio di un album, di un’operina pop, un tour o quel che sia, salvando la spocchia, anche loro, del “Io in gara mai più, non ne ho bisogno”, ma del baraccone rutilante sì che ce l’hanno, esattamente come i figli spuri di Speranza e le figlie purtroppo naturali di Mango o segrete ma mica tanto di Pippo Franco e cioè il Ghali nel pollaioh, chi chi chi, co co co. Il Festival si ricorda di chi è stato, esalta la sua vocazione spoon river, tra scaramanzia e cinismo, ma almeno si capiscono parole e musica per una sera, non quei borbottii e muggiti e nitriti e nitrati oltre l’afasia canora.

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Non succede niente tranne la nostalgia di porcellana, ma così dev’essere. Tutto fila liscio, si stava meglio quando si stava peggio, che brava M’annoia che trasfigura Occidentali’s Larva, che bravo il compagno Vecchioni che pare il card. Zuppi, molto più a sinistra di lui, che bravo Tozzi, però anche la Berté, però la Nannini anche, però anche i Ringo Boys de La tre o La Sad o Brnk44 o la Rosa coi suoi cazzi angelici (lei Chemical, io Chemio), però anche Dargen con gli orsetti però. Non succede niente ma qui è solo il niente che succede, il Big Nothing. E io non ho nessuna nostalgia di stare lì 15 ore che è peggio che qui in reparto. Coi colleghi che vogliono tutti “a comandà”, nella duplice collocazione, Sanremo e Palazzo Chigi.

Lo dissero, e lo ricorderete, mica vi conto palle, io c’ero, lo dissero anche per i Blasotti, i Tottagnez, Pupone e Ilary, prima che scoppiassero, due afasici della romanità pignatta che piace a d’Agostino, tutto un ahò embeh, ma lì volevano conduttori alla guida del Festival regime e del Regime festival. Sono finiti a litigarsi borse e orologi, ahò, embeh, e nessuno li ha mai conosciuti, sic transit gloria immondi.

Chi vince, chi perde nel Big Nothing del Big Mama? Vincono tutti perché si può solo dire nulla, non si può scrivere che Bertè e Ricchi e Poveri da Paperopoli con furore stringono il cuore, che la nostra amata Pazza non regge più un karaoke (fossi al roof lo scriverei e dopo i cari colleghi tutti a smarcarsi, a cambiarsi di posto, schifati, che comunque è sempre un felice effetto collaterale perché lassù tutti apprendisti Mengoni o tutte aspiranti Annalisa a partir dalla guepiere). Neanche si può azzardare che questi in fama di giovani non sono neanche dei manovali della musica, che non esistono, che sono buoni solo a far capire quanti sordi e interdetti ci sono in giro.

Anche se fanno gli scappati dai bassi napoletani e poi arrivano su voli privati e sfoggiano orologi da Totti, borse da Ilary, hai capito gli scugnizzi del popolo che pur issj adda campà, al netto degli scagnozzi. I confronti dei duetti sono impietosi. I vecchi saranno anche bolsi, scoppiati, ma i sedicenti giovani sono dei poveri cani, avrebbe detto Gioann Brera fu Carlo.

Il divario di carisma tra Cocciante e Irama, per mero esempio, è sconcertante, uno a 78 anni soffre, rugge, l’altro a 20 posa, sfila. Non cantano, neanche si azzardano, non sono duetti, sono monologhi. Gazzelle e Fulminacci sembrano due che qualcuno ha abbandonato da soli ai giardinetti. La Cuccarini convinta, eh, di essere ancora la più amata, sai quelle leggende che a forza di ripeterle, a slogan, con Ama che le rende una ambigua mitologia: “Con lei mi sono fatto di quei viaggi, perché è una che sa fare tutto”. La Cucca fa un madley di “sei tutto matto sei con noi, l’ascensore salirà sugar sugar, aria pulita voglia di vita, vola con tutto il fiato in vola”, tutta roba che si prestava benissimo alle cover più intuibili. Sarebbe questo il grande spettacolo che il mondo ci invidia? Con Ciuri mascherato da tanghèro tra i ballerin de Cucarin e Ama che el se scompiscia, olè?

Ma guai a dirlo! Ma che è ‘sta sudditanza, sottomissione, timore da lesa maestà di apannate meteore e decadute stelle ridotte a polvere, brillantanti per una sola settimana o per cinque minuti, non sono mai riuscito a capirlo. Non siamo qua per far le bucce, per criticare? “No, siamo qua perché ci hanno invitati e ringrazia che ti ci tengono” mi ammaestrò uno una volta, palesato una mamma mia che confusione quanto a ruolo etica e professione.

Allora diciamo niente, che son tutti ottimi, io vedrei bene presidente anche Diodato, così ci vaccina, anche Geolier, che pur isso adda campà, difatti vince, con altri tre preoccupanti, anche Clara che è una kikazè, o Rose Villain che invece lo so chi è, è l’aggiornamento di Elettra Lamborghini, la ricordate, Pem Pem, forse onomatopeico o anagraficamente intestinale. O questa stinta Mannino che con la scusa delle formiche metaforiche vede il maschio mero donatore di sperma, a conferma che l’imbecillità militante è genetica a Sanremo. Pensa che succede se vado io a dire che la donna, come ripeteva il mio cartolaio Carlino, che però era una macchietta, ”sta bene solo in posizione orizzontale o a 90 gradi”. Ma la comica in subaffitto lo può dire.

Ma soprattutto vorrei a comandare Amaciuri, anche di là, seppure esagerano eh, quella porcata del qua qua a Travolta è proprio lo sbarco di un potere che non si tiene. E lascia perder lo sponsor, lì è il gesto atletico proprio. Poi chiamano il vecchietto Ruggero, uno della crew mattutina di Ciuri, e il resto scompare.

Qui va aperta una pare(nte)si. La gag, per chiamarla così, del Ciuri che, con la complicità di una trentina di “autori” oscenamente pagati (da noi) ha distrutto in 30 secondi la reputazione della star Travolta, che durava da mezzo secolo, ha fatto scandalo nel mondo ma non è altro che puro Fiorellismo unchained. Parafrasando Popeye, Rosario Tindaro potrebbe dire “io son chi sono e soltanto chi sono e questo è tutto quello che sono”. Lui è così, non c’è altro. Sarebbe capace di imporre i Jalisse dopo 27 anni, con contorno di Beppe Vessicchio, perché si diverte lui e crede sia spassoso per l’umanità. Una infinita storia d’amore col club da crociera, su le maniii! È stata certa misteriosa stampa a portarlo in processione come una Madonna del Rosario, e dopo la sovrastruttura ha fatto il resto.

FioreCiuri è l’istrione di regime, che cazzeggia da aziendalista, innocuo, si impermalosisce se non si sente divinizzato a dovere e poi si vendica. È un intoccabile tappabuchi da risatella a denti stretti, come la Settimana Enigmistica di un tempo che fu. Ma la sua scivolata sul qua qua è stata disastrosa, e avrebbe provocato la rimozione immediata di chiunque altro. La sensazione è che potrebbero chiamare a presentare la salma di Mike, l’avatar di Nunzio Filogamo, come gli Abba, l’intelligenza artificiale proprio per Ilary, e ce ne vuole molta, Gino Cecchettin o un sordomuto, e andrebbe bene uguale, i dieci milioni non sono un granché ma il 60 di share fisso basta a tappare tutte le bocche, in cui resta “l’amore” dei Santi Francesi.

Anche i nuovi dirigenti, che a me ispirano una rima troppo facile, sono arcicontenti. Che a voi non vi sta bene, disfattisti, rosiconi, antitaliani di merda, razzisti anti napoletani che altri non siete, che fischiate se vince nu scugnizzo in jet privato che fino a qua non lo conosceva nessuno fuori da Secondigliano?

Max Del Papa, 10 febbraio 2024

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