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Scudetto, il segreto del Napoli è il liberismo

La vittoria azzurra può essere considerata un esempio da manuale della capacità imprenditoriale

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Come era facile prevedere lo scudetto del Napoli si è caricato di elementi extra sportivi. In Italia, e forse non solo in Italia, il calcio racchiude sensi e significati che travalicano il campo di gioco (il quale, fra l’altro, nella sua specificità, ha emesso con nitida chiarezza il suo giudizio questa volta inappellabile: il team di Luciano Spalletti si è dimostrato incontestabilmente una spanna al di sopra di tutti gli altri).

Immaginabile era, in particolare, la circostanza che, fra rancori e risentimenti, vittimismi e moralismi, si scatenasse la guerra fra gli alimentatori e i detrattori di una certa retorica meridionalistica (vedi le dichiarazioni di Giuseppe Cruciani). Eppure, quello che è a mio avviso il più istruttivo dei messaggi extra sportivi che ci trasmette la vittoria del Napoli non è stato colto del tutto, dimenticato o messo in secondo piano. Si tratta di un elemento dirimente e originale, inaspettato, e soprattutto non facilmente collegabile con quella che è la retorica legata alla città partenopea, e al Mezzogiorno d’Italia più in generale. Lo scudetto del Napoli può infatti essere considerato un esempio da manuale, un case study, della capacità imprenditoriale e manageriale di un’azienda. In questo senso il vero artefice del successo è sicuramente il presidente e proprietario, Aurelio De Laurentis, il quale ha avuto l’ardire di remare contro una delle più appassionate tifoserie italiane pur di realizzare il suo piano.

Fino all’estate scorsa, la città intera aveva in odio il presidente, che semplicemente non sentiva suo. De Laurentis si era infatti disfatto, negli anni, nel momento forse della loro maggiore gloria, dei giocatori più rappresentativi della squadra, iper-amati dai tifosi, veri e propri campioni venduti a peso d’oro a grandi società europee: da Lavezzi ceduto al Paris Saint-Germain a Higuain passato alla Juventus; fino da ultimo a  Koulibaly, che è ora del Chelsea, a Insigne, che gioca nel Toronto, e a Mertens, che è finito al Galatasaray di Istanbul. Il tutto con l’esigenza di fare cassa proprio nel momento in cui erano all’apice della loro carriera (fra l’altro, sarà un caso ma una volta lontano da Napoli nessuno di loro ha ripetuto le precedenti performances).

L’esigenza primaria era quella di fare cassa, di portare a casa suon di milioni. Il che fa oggi della società, come è noto, è una delle poche, o forse addirittura l’unica, con i conti a posto. E, fra l’altro, con una proprietà italiana e iper-tradizionale: non magnati di discutibile originali o fondi sovrani, ma un eccentrico (come sono spesso gli imprenditori di genio) produttore cinematografico. Il vero imprenditore, però, non può limitarsi solo a fare cassa, deve anche cercare di rendere produttivi i soldi che ha portato a casa. La via più semplice e spettacolare, quella che fa ad esempio colpo sui tifosi, è di comprare un grande campione, un po’ come ha fatto (senza successo) la Juventus con Cristiano Ronaldo. De Laurentis ha invece fatto un altro discorso, che era ovviamente anch’esso un azzardo (ma il rischio è l’altra faccia, insieme alla “sostenibilità”, della virtù imprenditoriale).

Quello che il Napoli ha rimesso in piedi è una vecchia prassi, lo souting, abbandonata dal moderno calcio-spettacolo sempre alla ricerca di scorciatoie per vedere subito i risultati, che spesso non ci sono, degli investimenti. Questa parte delicatissima è stata affidata al direttore sportivo, un ex calciatore con l’esperienza e il fiuto giusti: Cristiano Giuntoli (un altro toscano, come Spalletti). Con discrezione e capacità, Giuntoli si è messo in giro per l’Europa e, sempre tenendo presenti gli interessi della squadra, si è messo a cercare giovani di sicura stoffa, potenziali campioni, non ancora sotto i riflettori (e quindi economicamente abbordabili), da portare a Napoli e a cui dare una possibilità (il caso del georgiano Kvaratskhelia è forse il più significativo). La sapienza e la capacità dell’allenatore, che ha saputo amalgamare giocatori tanto diversi, “facendo squadra” piuttosto che puntando sui singoli, ha fatto il resto.

In conclusione, come ha scritto su Il Mattino il professor Sergio Sciarelli, ordinario di Economia e Gestione delle Imprese alla Federico II, “il modello calcio Napoli può essere assunto come modello imprenditoriale da imitare anche in altri casi, come per esempio quello dell’amministrazione cittadina. Una società con un’organizzazione leggera e con un gruppo di uomini molto motivati ha difatti dimostrato che a Napoli si possono realizzare progetti ambiziosi senza il ricorso a finanziamenti di mecenati non sempre di elevata moralità e senza dovere chiedere e ottenere trattamenti di favore”. Certo, anche questa è retorica. Ma a me sembra una buona retorica.

Corrado Ocone, 7 maggio 2023

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