Politica

Sfatiamo un mito: il Manifesto di Ventotene non ha fondato l’Europa

No, Altiero Spinelli non è un padre fondatore sia per la scarsa rilevanza politica sia per l’ispirazione fortemente socialista

Spinelli ventotene europa © Ramberg tramite Canva.com

Nel giorno della grande polemica sul Manifesto di Ventotene, criticato aspramente da Giorgia Meloni alla Camera, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto del libro “Europa. L’Unione che ha fallito” edito da Historica Edizioni e scritto da Corrado Ocone.


I primi passi verso l’integrazione. Il ruolo dei Padri fondatori.

Quando iniziò il secondo dopoguerra, già da qualche decennio, come abbiamo visto, le classi pensanti del continente avevano avvertito la “stanchezza” della coscienza europea. Fu soprattutto fra le due guerre mondiali che le migliori voci della cultura si erano poste il problema della decadenza o declino del continente, della progressiva erosione dei suoi valori fondanti. E avevano individuato la possibilità di invertirne la rotta facendo leva proprio su ciò che di più proprio ha la nostra civiltà: le risorse di senso depositate nella coscienza collettiva dalla cultura greco-romana prima, cristiana poi, moderna infine.

Non è un caso che i primi tentativi, spesso vaghi e velleitari, di creare un movimento che portasse all’unione politica del continente, nascessero proprio in quel periodo. La domanda sorge allora spontanea: che rapporto ci fu fra le filosofie della crisi e il processo di integrazione che, in modo più concreto seppur cauto, ebbe inizio a guerra finita? C’è un legame fra quelle filosofie e la successiva unione economica e politica, un processo che è ancora in corso e i cui risultati, da molti messi in discussione, in tutto o in parte, sono sotto i nostri occhi? La risposta non può non essere a tutta evidenza che una sola: non ci fu nessun rapporto o quasi.

Sui motivi che hanno favorito e permesso le prime forme di integrazione europea ci sono infatti molti miti da sfatare. Ad esempio, si può dire con una certa sicurezza storiografica, corroborata dai maggiori studiosi, che la spinta propulsiva maggiore fu data non da considerazioni generali concernenti la volontà di garantire la pace in un continente che era stato teatro di due guerre mondiali e aveva visto l’affermarsi dei totalitarismi, bensì dalla necessità sentita oltreoceano di creare un blocco occidentale compatto da poter opporre alle mire espansionistiche sovietiche. L’integrazione, detto in altre parole, fu figlia soprattutto della “guerra fredda”. I cosiddetti Padri Fondatori -il tedesco Adenauer, il francese Robert Schumann, l’italiano Alcide De Gasperi – ebbero il merito di assecondare la politica decisa a Washington perché anche loro, ispirandosi ai valori democratico-cristiani, temevano l’espansionismo russo che poteva fare affidamento nel continente, come potenziale cavallo di Troia, sulla presenza di partiti comunisti più o meno forti e organizzati. Anch’essi temevano un’Europa completamente in mano all’orso sovietico. Il loro europeismo consisteva soprattutto nell’adesione convinta, per questioni di interesse e ideali insieme, all’ “integrazione europea guidata dagli Stati Uniti” che veniva messa a punto a Washington.

Come osservano gli storici Giuseppe Mammarella e Paolo Cacace:

“la dottrina Truman e il piano Marshall erano i due pilastri, ideologico l’uno, economico l’altro, sui quali in meno di due anni gli americani costruivano il blocco occidentale. Il terzo pilastro sarà il Patto Atlantico che del blocco avrebbe costituito il sistema difensivo”.

E ancora:

“Piano Marshall, Patto Atlantico e sostegno all’integrazione europea erano tre aspetti ella stessa politica: quella che mirava a costruire un blocco occidentale in funzione antisovietica e anticomunista”.

Né francamente può considerarsi un Padre Fondatore Altiero Spinelli: sia per la scarsa o nulla rilevanza politica da lui avuta in quel torno di tempo; sia per la curvatura internazionalista prima che europeista e l’ispirazione fortemente socialista che il suo pensiero aveva sempre in quegli anni.

È proprio un modello per noi il Manifesto di Ventotene?

Al contrario dei Padri fondatori citati, a cui si tributa di solito solo un omaggio formale, negli ultimi tempi è cresciuta la mitologia intorno agli estensori del cosiddetto “Manifesto di Ventotene”. Il “mito” e la retorica, pur non essendo elementi razionali, o forse proprio per questo, hanno in politica un ruolo importante: aggregano attorno a certe idee, suscitano energie, generano passioni. Lungi da me, pertanto, criticarne l’uso. Ciò non esime però dal chiederci, di volta in volta, se determinati miti aggreghino attorno a idee condivisibili o meno, siano cioè una buona o meno buona base per l’azione. Perché, anche quando concernono fatti o personaggi del passato, essi rispondono sempre ad un’esigenza del presente e hanno gli occhi rivolti al futuro. Per farla breve, il fiume di retorica che sgorga in modo spesso irriflesso quando si parla del Manifesto di Ventotene, è ben riposto o no?
Il Manifesto è davvero un testo in sé solido, e per di più originale, o la sua fortuna è dovuta soprattutto a cause esterne e al contesto in cui maturò ed ebbe poi diffusione? E, soprattutto, le sue idee, ovviamente riviste e “attualizzate”, possono ancora essere le nostre?

È sulle sue basi che si può costruire la politica del futuro, o anche l’auspicabile rinascita di un sentimento europeista? Ora, basta leggere lo smilzo testo scritto nel 1942 da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi per renderci conto, da una parte, della approssimativa “filosofia della storia” che lo sorregge, dall’altra, del metodo e dei contenuti non proprio liberali da esso proposti all’Europa unita di cui auspica la nascita. Dal primo punto di vista, il trambusto che viveva allora l’Europa, e che aveva portato a due guerre mondiali, viene messo sul conto degli Stati nazionali, di cui si auspica il superamento: garanti ultimi in un primo momento delle libertà civili e politiche dei cittadini di un determinato territorio, essi avrebbero poi mostrato la loro più vera natura di entità politiche “imperialistiche” volte al predominio e alla sopraffazione degli altri.

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L’ideologia nazionalista è stato perciò il grimaldello culturale a cui essi sono appoggiati. Questa deriva è, per gli estensori del Manifesto, consustanziale ad ogni Stato nazionale. Ed è proprio per batterla in breccia che essi propongono gli Stati Uniti di Europa. È una visione tutta politica della “crisi europea” che non tiene in debito conto i fattori culturali e ideologici che ne sono stati alla base e che spesso si sono serviti degli Stati, non viceversa. Nei confronti dello Stato, in verità, Spinelli e Rossi hanno un atteggiamento ambiguo: lo giudicano un ferro vecchio del passato, ma non esitano poi a proporre ricette fortemente “stataliste” per la nuova Europa post-statale che vogliono costruire. Non si rendono conto che lo Stato mostra il suo volto “cattivo” proprio quando si riempie di valori contenutistici, ovvero quando non li fa emergere dal libero gioco politico di cui dovrebbe essere semplicemente il garante.

Il Manifesto si spinge in tal senso a dire che l’Europa “dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita”. Di qui un elenco di politiche che dovranno essere seguite per darle il profilo che dovrà necessariamente avere, indipendentemente dai rapporti di forza fra i partiti politici e dal consenso dell’opinione pubblica: “nazionalizzazioni su vasta scala, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti”; controllo e forte limitazione, secondo dosi e tempi da stabilire pragmaticamente, del diritto di proprietà, soprattutto di quella individuale (nei limitati settori non statizzati si dovranno infatti favorire la gestione cooperativa e l’azionariato popolare); interventi attivi sui giovani per equiparare le loro condizioni di partenza e equiparazione successiva dei salari e degli stipendi medi, attraverso il controllo statale del meccanismo della domanda e offerta; reddito minimo garantito dallo Stato da sostituire alle “avvilenti” attività caritatevoli individuali (cioè combattere, o illudersi di combattere, la povertà ex ante e non ex post); sindacati rinnovati e non succubi delle logiche del “grande capitale”; una laicità attiva dello Stato, che dovrà non solo neutralizzare le pretese pubbliche delle religioni, ma che dovrà anche “riprendere la sua opera educatrice per lo sviluppo dello spirito critico” (quindi uno Stato pedagogo) e “fissare in modo inequivocabile la sua supremazia sulla vita civile”; soppressione delle corporazioni dello Stato fascista il cui scopo era soprattutto quello di effettuare “un controllo poliziesco sui lavoratori” (e su questo punto unicamente anche un liberale può essere d’accordo).

Ora, è evidente che se queste debbano essere le caratteristiche imprescindibili della nuova Europa, in quanto in sé “giuste” e “buone”, a prescindere, bisogna che, a guerra finita (cioè quando a causa del fallimento degli Stati nazionali se ne creerà l’occasione), venga messa in opera una rivoluzione che, per il bene di tutti, determini nel più breve tempo possibile un siffatto stato di cose (ed è questo il senso politico del Manifesto, lo scopo per il quale fu scritto: richiamare all’azione le forze rivoluzionarie e non farle trovare impreparate rispetto a un futuro imminente). Una rivoluzione nel senso preciso del termine, per Rossi e Spinelli: un processo cioè che, in vista dell’obiettivo, sospendi l’ordine democratico, non rifiuti l’uso della violenza, sia guidato da un’élite di rivoluzionari molto determinati e con gli occhi fissi verso l’obiettivo dell’Europa socialista.

È il tratto “giacobino-leninista” del Manifesto, che lo stesso Spinelli avrebbe ammesso molti anni dopo. “La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria”.

Ora, sia ben chiaro, la politica viene fatta attraverso l’azione di élite, sempre, anche in democrazia. In un regime liberale, tuttavia, è necessario che tutti possano aspirare a farne parte e che esse sorgano dal basso, siano diverse e in aspra competizione fra di loro, siano alternativamente al potere secondo la volontà dei cittadini. Nessuno può proclamarsi a priori di farne parte in nome di un’idea ritenuta superiore, arrivando a sospendere il gioco democratico o a non tenere conto degli umori e delle convinzioni dei cittadini-elettori. Nessuno può ritenersi portatore di idee buone e indiscutibili, di agire paternalisticamente per il bene degli altri anche se gli altri non vogliono. Che è quanto, in sostanza, fanno Rossi e Spinelli. I quali hanno dietro le spalle la più fallace delle ideologie e teologie politiche, quella del Progresso. Per loro la storia si muove inesorabilmente nella direzione del bene. E il bene, astrattamente definito, non è una opzione concreta delle nostre azioni, il possibile e precario risultato dell’azione di un essere in sé fallibile. Il bene è già iscritto nella storia. Ciò che a noi è possibile è solo accelerare il processo, “forzare la mano alla storia”, realizzare una “rivoluzione dall’alto”.
“La via da percorrere non è facile e sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà”.

Siamo, in altre parole, pienamente all’interno del dispositivo logico che era stato proprio dei totalitarismi, in prima istanza di quello sovietico, verso il quale il Manifesto ha come un occhio di riguardo non considerandolo probabilmente affetto dalla patologia del nazionalismo a cui vengono ricondotti in modo esclusivo i Mali dell’umanità (l’URSS viene però giustamente criticata per la sua deriva burocratica, senza però che gli autori si rendano conto che anche la iperregolamentazione a cui loro tendono non può non avere che questo esito).