Sono un elettore di Giorgia Meloni e, salvo nuove proposte politiche più convincenti (che non vedo all’orizzonte), lo sarò ancora. Tuttavia, faccio fatica a unirmi all’acclamazione che ha seguito il suo viaggio negli Stati Uniti, non cogliendone, a oggi, un risultato concreto, utile, strategico. Meloni si è confrontata con Donald Trump, un interlocutore notoriamente difficilissimo e imprevedibile, che parla da una posizione di forza di cui non fa mistero. La premier ha giocato una partita impossibile e non si può certo imputarle la mancanza di buona volontà o determinazione.
Difatti, al netto delle foto di rito e dei toni cordiali, l’incontro non ha prodotto impegni vincolanti su alcun fronte. Nessuna apertura concreta sui dazi, nessun passo avanti sul dossier Ucraina, nessuna garanzia su un riequilibrio commerciale o strategico tra Italia e Stati Uniti. Si è parlato di aumentare le importazioni di gas e di investimenti italiani in America, ma sono annunci, non accordi. Anche l’ipotesi di una visita di Trump a Roma è stata lasciata nel vago, così come la proposta di un vertice Europa-Usa lanciata da Meloni. Tutto ciò conferma, senza retorica, che è finita da un pezzo la stagione della geopolitica dei piccoli stati.
Per contare davvero nello scacchiere internazionale non basta avere una linea, serve il peso. E il peso, oggi, non è più nazionale: è continentale, a meno di non essere armatissimi: come Israele o la Corea del Nord, che compensano la dimensione geografica con la deterrenza militare. Ma noi non siamo né grandi né armatissimi. Pertanto, la costruzione di una nuova e rispettata (economicamente e militarmente) Unione Europea, coesa, autonoma e finalmente capace di parlare con una sola voce nel mondo, non è più rinviabile, con buona pace dei sovranisti fuori tempo massimo.
Giorgio Carta, 18 aprile 2025
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