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Tim, le difficoltà che aspettano Gubitosi

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Se permettete su Luigi Gubitosi, appena nominato amministratore delegato e direttore generale di Tim, devo fare una premessa personale. Fu Gubitosi, insieme all’attuale direttore di Rai Angelo Teodoli, ad assumermi in Rai e a lasciarmi incredibile libertà nell’ideazione e conduzione di Virus. Parto, insomma con un pregiudizio positivo. La sua carriera è quella di un manager con i fiocchi. Senza quei difetti del ceo-capitalism (copyright Riccardo Ruggeri) per il quale gli amministratori delegati sono i nuovi padroni delle ferriere interessati solo al proprio bonus e meno alle imprese che transitoriamente governano e il cui destino non è minimamente legato alle fortune del dirigente che le guida. In Wind la sua presenza ha fatto segnare ventitré trimestri continuativi di crescita.

È passato per una grande banca d’affari americana, Merrill Lynch, che non ha esitato a mollare per andare a guidare la Rai, con uno stipendio di molto inferiore. Quando Renzi impose l’assurdo tetto agli stipendi, non solo lo accettò, senza trovare escamotage, ma lo mantenne anche quando l’obbligo saltò. Ha preteso di avere un contratto a tempo determinato e gestì il taglio di un paio di centinaia di milioni di euro decisi a metà anno fiscale dall’allora governo, risanando i conti. Tutta ciccia, che bruciò quel fenomeno del suo successore, il conte Mascetti Campo Dall’Orto. Mi colpì molto quando, unico boss Rai dell’ultima generazione, non si piazzò in prima fila alla kermesse sanremese. Troppo presto per dare un giudizio su quello che insieme agli altri due commissari ha fatto in Alitalia. Una missione impossibile con due aspetti vincenti: non ha bruciato la cassa di guerra fornita dal Tesoro e ha rivitalizzato commercialmente la ex compagnia di bandiera.

Nessuno meglio di Gubitosi ha oggi le carte migliori per sollevare la Tim dal buco in cui si è ficcata. Dopo l’estromissione voluta dalla politica della gestione di Marco Tronchetti Provera, l’ex monopolista delle tlc non ne ha azzeccata una.

C’è però una grande incognita: cosa sarà la Tim di Gubitosi? Il fondo che lo ha sostenuto è favorevole alla separazione e alla cessione della rete Telecom. Proprio la questione che mise Tronchetti di traverso alla politica romana. La rete vuole dire acquisti, dipendenti, investimenti, segreti. Tim senza rete è come un corpo senza scheletro. Proprio perché parliamo di un’azienda che è nata intorno alla rete quando ancora le tlc viaggiavano solo sul rame. Ebbene Gubitosi dovrà gestire questa sfida. Da parte del governo, in particolare la componente grillina di origine Casaleggio, si conoscono bene i benefici del controllo di questa infrastruttura. Il nuovo boss di Tim ha una grande esperienza nella gestione dei contenuti. E in un mondo che viaggia 4.0 dovrà far fare un salto 2.0 al colosso fragile che gli hanno consegnato.

Il suo sentiero sarà strettissimo. Da una parte gli azionisti, in specie il fondo che lo ha scelto, ovviamente ossessionati dalla remunerazione del capitale investito. Dall’altra quel che resta di un complesso aziendale che dovrà trovare una nuova pelle, con un’eredità pesantissima che gli arriva dal passato, e un legato, micidiale, che gli arriva dal presente: e cioè giocare senza rete contro i competitor molto più snelli, con minore debito e meno dipendenti. Non sarà facile. Come per Alitalia, in molti ci hanno provato: nessuno ci è riuscito. Fino ad ora.

Nicola Porro, Il Giornale 19 novembre 2018