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Veneziani ha ragione: alla destra serve un’élite

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Negli ultimi anni abbiamo imparato a non fidarci delle previsioni date per certe quando si parla di politica italiana, in un contesto in cui il voto ha assunto un carattere sempre più liquido e nel giro di pochi mesi milioni di elettori spostano il proprio consenso non solo da un partito all’altro ma da un’area politica a quella avversa, è difficile fare analisi corrette. Ciò avviene sia per il carattere post-ideologico di una parte dell’elettorato italiano sia per l’incapacità dei partiti di costruire progetti a medio e lungo termine che si basino non solo su un (effimero) consenso elettorale immediato ma abbiamo una prospettiva politico-culturale.

A discolpa della politica nostrana possiamo dire che la contemporaneità richiede una comunicazione constante, anche più volte nel corso della giornata, si basa su un forte utilizzo dei social network e porta i leader ad avere una sovraesposizione che alla lunga rischia di generare l’effetto opposto rispetto a quello desiderato facendo scattare nei cittadini una sorta di repulsione. Un fenomeno che potremmo definire “effetto Renzi”, ormai inviso dalla maggioranza degli italiani non solo per gli errori compiuti mentre era al governo ma anche per il modo di porsi e per la sovraesposizione mediatica.

È una modalità di fare politica che strizza l’occhio a uno dei mali del nostro tempo: l’odiernità. Non utilizziamo questo termine casualmente poiché in più occasioni il filosofo Marcello Veneziani si è scagliato contro una società europea e occidentale schiava dell’odierno, dell’oggi, e incapace sia di ricordare il proprio passato sia di programmare il futuro.

Troppo spesso la politica – che nella sua funzione originaria dovrebbe orientare i cittadini ma sembra aver abdicato a questo ruolo invertendo il paradigma per cui, invece di essere le classi dirigenti a guidare il popolo, sono i cittadini a definire temi, modalità e argomenti che poi la politica fa propri e rilancia -, si limita a rincorrere il dibattito quotidiano. Così facendo, le persone si sentono coinvolte e il loro consenso viene indirizzato verso i leader che interpretano di più le richieste del popolo (non sempre e non per forza giuste), facendo scattare un processo mentale per cui “ha detto quello che penso io”, perciò lo voto. È un modo di far politica rischioso poiché, se nel breve termine senza dubbio paga, negli anni l’incapacità di offrire una proposta con idee proprie, di costruire un’élite – nell’accezione positiva del termine, da non confondersi con casta o establishment -, rischia di generare discese nel consenso altrettanto rapide rispetto alla crescita.

Come si ottiene una progetto politico duraturo e in grado di andare oltre le ormai fisiologiche oscillazioni nel consenso? Avendo una visione che non limiti la propria attività al mero consenso elettorale nell’immediato ma sappia essere compenetrante nei settori nevralgici a partire dal mondo dei media, dalla scuola, dall’università, dalla cultura. Oltre alla politica quotidiana, sono questi i luoghi in cui si può – e si deve – costruire l’opposizione all’esecutivo guidato da Conte. Purtroppo, anche se l’attuale governo dovesse cadere prima della naturale scadenza (come auspichiamo), difficilmente si tornerà alle urne prima del 2023. Il centrodestra ha davanti a sé tre anni in cui deve costruire un progetto per arrivare pronto alle elezioni nazionali e, in caso di vittoria, essere in grado di guidare l’Italia.

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