Reportage

Viaggio nei luoghi della riconquista afgana

di Luisa Bianchi

Nel maggio 2019 sono partita da Islamabad diretta verso le montagne dell’Hindu Kush ai confini con il Nuristan afghano – andavo ad assistere alle cerimonie rituali dei Kalasha, una popolazione la cui origine è tutt’ora misteriosa (si ritiene discenda dai soldati macedoni di Alessandro Magno) che vive in una valle a pochi chilometri dall’Afghanistan. Salendo da Peshawar verso nord, nel corso di quel viaggio ho attraversato una buona parte della regione del Khyber Pakhtunkhwa, l’ex provincia della North West Frontier, lungo il confine con le FATA, le Federally Administered Tribal Areas, riconosciute territori del Khyber Pakhtunkhwa ma di fatto feudi talebani. Sono i territori delle tribù di etnia pashtun, su cui il governo pakistano ha sempre avuto scarso controllo e dove l’islam più rigido e il codice d’onore ancestrale delle genti pashtun hanno rappresentato l’humus ideale per i talebani, che qui si sono ricavati aree di sostanziale autogoverno. Ed infatti è tra queste montagne che i talebani afghani hanno trovato sicuramente rifugio, e probabilmente protezione, negli ultimi 20 anni, approfittando dell’opaca relazione tra Pakistan e Afghanistan, fitta di ombre che la cosiddetta guerra del Waziristan non è riuscita a dissipare.

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La roccaforte talebana

Sono terre aride, polverose, montagne brulle e rocciose, valli ombrose che a tratti si aprono in brevi fughe verdeggianti. I villaggi sono disordinati gruppi di case fatte di legno e mattoni di fango, attraversati da strade in terra battuta e abitati in apparenza solo da uomini. Sono alti, hanno volti dai tratti eleganti, lunghe barbe nere, occhi verde scuro. Sono di etnia pashtun, vestono i loro lunghi shalwarkameez e portano il pakol di lana in testa. Fino a qualche anno fa il loro abbigliamento tradizionale prevedeva anche fucile e cartucciera, ora l’hanno vietato, anche se un AK47 si può tranquillamente acquistare al bazaar senza alcuna licenza. Seduti davanti alle porte di legno delle botteghe, o intenti a negoziare merci sui banconi di improvvisati mercati, o a discutere in piccoli gruppi che si formano nell’inarrestabile flusso di persone, asini, vecchie moto e carretti, ci sono solo uomini – bambini, vecchi, adulti.  La scorta armata insiste per precedermi ogni volta che mi addentro in qualche villaggio, ma probabilmente non ha alcuna utilità: in realtà è solo curiosità e stupore che incontro. E infatti a tratti qualche giovane pashtun che parla due parole di inglese mi ferma per chiedermi cosa ci faccia io lì. Ma il tono non è aggressivo, anzi. Mi dicono che sono felici di vedere un visitatore nonostante la propaganda negativa dei media occidentali. Dicono che dal 2001 non se ne vedevano. Be’, mi pare ovvio. Mi offrono tè in piccoli bicchieri di latta, mentre si lasciano fotografare con il compiaciuto narcisismo tipicamente maschile. “China is a beautiful country”, cosi mi saluta sorridente un vecchietto. Chissà cosa pensava di dire, oppure se davvero mi ha preso per una cinese. In ogni caso è il segno evidente della penetrazione silenziosa e rapace della Cina in queste terre, iniziata già da anni e ormai ufficiale e inesorabile.

Le donne costrette nell’ombra

Le donne sono apparizioni fugaci, fantasmi svolazzanti sotto i loro burqua nei colori della sabbia. Si nascondono, camminano svelte tenendo i bambini in braccio e per mano. In realtà mi accorgo che fuggono soprattutto quando ci sono uomini intorno a loro. Quando le incontro da sole, lungo i vicoli polverosi, o dietro ai muri scrostati, allora si fermano. I bambini osservano, le ragazzine sorridono – per molte, alla soglia dell’adolescenza, sono gli ultimi sorrisi visibili per strada, poi un velo nasconderà ogni espressione.

Non so immaginare quale sguardo abbiano le donne dietro la fitta rete del burqua. Non so se osservano, se sorridono, se anche loro, come gli uomini, sono solo stupite. Se mi guardano con disprezzo per la mia diversità di abbigliamento che è diversità di vita. Se mi odiano, o mi invidiano. Se vorrebbero parlare ma sanno di dover restare in silenzio, per le rigide regole del loro islam. E poi comunque in quale lingua potrebbero comunicare? Fantasmi di sabbia senza volto, senza voce, nascoste nelle case di mattoni di fango e lamiera. Fantasmi silenti. Guardo le loro scarpe, sono l’unico elemento di distinzione. Ma quanto si può capire da un piede nascosto in un orribile sandalo made in China?

I bambini allevati in moschea

Qualche mano esce tra le pieghe dei burqua, e allora almeno capisco se la donna è giovane o vecchia. Mi pare di avvertire molta più ostilità nelle mani invecchiate, mentre le dita giovani che stringono i polsi dei figli mi pare vogliano solo allontanarsi trascinando rapide nella polvere quei bambini che voltano la testa e mi guardano fissi. Mi chiedo se potranno mai scoprire il resto del mondo, quei bambini. Di sicuro non sarà facile, visto che a scuola non possono studiare né la geografia né le lingue straniere. La loro visione del mondo si costruirà nella moschea del villaggio, dove seduti su tappeti logori recitano il corano ondeggiando ipnotizzati, cantando litanie nella penombra. In una moschea l’imam inaspettatamente mi lascia prendere qualche fotografia – cosi potrò mostrare quanto sono tolleranti, mi dice. Se ogni weltanschauung è condizionata dal pensiero religioso, qui non c’è speranza di cambiamento. Posso solo augurarmi che internet aiuti a portare altri modelli culturali. Magari non proprio tutti i nostri attuali.

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