Giustizia

Altro che toghe in sciopero: due buoni motivi per separare le carriere

La riforma non può costituire la panacea di tutti i mali della giustizia, ma si tratterebbe di un passaggio fondamentale

magistratura

Giovedì scorso la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso avanzato dai legali di Louis Dassilva, unico indagato per l’omicidio di Pierina Paganelli, rimandando la decisione sulla scarcerazione del loro assistito al Tribunale del Riesame di Bologna, che in precedenza aveva confermato la sua detenzione. Si tratta dell’ennesimo e preoccupante esempio di ciò che gli esperti definiscono processo indiziario, nel quale sembra sufficiente anche un piccolo dettaglio per finire nel tritacarne nel sistema mediatico-giudiziario.

Nel caso in oggetto, tutto si basa su un solo indizio, se così vogliamo definirlo, legato ad una immagine sgranata di una sagoma apparentemente maschile che viene ripresa da una telecamera di una vicina farmacia. Una immagine che, secondo gli inquirenti, smentirebbe l’alibi e le dichiarazioni del Dassilva, secondo il quale egli non si sarebbe mosso da casa nel momento in cui sarebbe stato commesso l’orrendo crimine.

Tra l’altro, fin dall’inizio in tanti si sono chiesti se, ammesso e non concesso che si riuscisse a dimostrare che l’indagato si trovasse per strada in quel momento, il fatto di essere ripreso da una telecamera ad una certa distanza dalla casa della vittima costituisca una prova tale da giustificare una carcerazione preventiva e, in seguito, una pesante condanna? Ovviamente no, in un sistema penale avanzato, nel quale dovrebbe essere sempre osservato con grande attenzione il sacrosanto principio latino secondo cui In dubio pro reo, occorrerebbe condannare solo oltre ogni ragionevole dubbio.

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Purtroppo da noi troppo spesso accade il contrario. Negli ultimi anni si sono succeduti innumerevoli casi giudiziari, su tutti quello inverosimile di Olindo Romano e Rosa Bazzi, mandati all’ergastolo sulla base di prove che definire discutibili è poco, nei quali la sostanziale inconsistenza dell’impianto accusatorio non è mai bastata a convincere l’infinita successione di giudici, togati e popolari, che si sono succeduti in tutti i gradi di giudizio, confermando quasi in fotocopia la sentenza iniziale.

Tutto questo ha messo da tempo in forte discussione il cosiddetto giusto processo, sancito dall’articolo 111 della Costituzione, che così recita in premessa: “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Ebbene, senza tanti giri di parole, questo magnifico principio non potrà mai essere applicato nella sua interezza fino a quando non si realizzerà la chimerica separazione delle carriere dei magistrati.

Sebbene la stessa separazione in sé non possa costituire la panacea di tutti i mali della giustizia, si tratterebbe comunque di un passaggio fondamentale per modificare una situazione che, per come si è strutturata nel tempo, determina una sorta di eccessivo solidarismo tra chi, pur svolgendo funzioni diverse, si sente accomunato in un forte spirito di colleganza. Spirito di colleganza che spesso e volentieri ha completamente svilito la medesima terzietà della figura giudicante.

Claudio Romiti, 25 gennaio 2025

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