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A che punto è la crisi: la forzatura del Colle, per chi gioca Conte e lo scontro per il M5S

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Asse Pd-Grillo contro Di Maio: in gioco leadership e natura stessa del Movimento, che rischia la normalizzazione

I fattori che decideranno l’ennesima pazza crisi di governo italiana sono sostanzialmente tre: lo scontro che si sta consumando ai vertici del Movimento 5 Stelle; quanti rospi è disposto ad ingoiare ancora il Pd – un partito ormai eterodiretto, sottoposto a spinte irresistibili sia interne che esterne, anche contro i suoi stessi interessi – pur di tornare al potere senza passare per una riaffermazione elettorale; un Quirinale all’apparenza discreto ma dietro le quinte scatenato, determinato a far andare in porto l’operazione Conte-bis a qualsiasi costo (altrui, ovviamente). Una forzatura politica senza precedenti: il paradosso a cui stiamo andando incontro è che pur non avendo mai votato così a destra come nelle ultime elezioni europee, gli italiani si ritroveranno probabilmente con il governo più a sinistra dell’intera storia repubblicana. A meno di miracoli, non credo saprà convincerli con la sua azione “riformatrice”, quindi si sta giocando con il fuoco… Certo, tutto legittimo in una Repubblica parlamentare, con un sistema elettorale dagli effetti proporzionali. Eppure, persino nella Prima Repubblica per risolvere le crisi di governo si guardava non solo alle dinamiche possibili nei Palazzi, ma anche a quelle fuori di essi. Dice: ma in Parlamento il Pd vale quanto la Lega, quindi è del tutto naturale che possa subentrarle al governo con i 5Stelle. Vero, ma c’è un dettaglio politico non secondario che suggerirebbe prudenza: il 18 per cento del Pd alle elezioni del 4 marzo 2018 fu una sonora batosta, una clamorosa bocciatura da parte dell’elettorato, mentre, al contrario, il 17 per cento della Lega un inaspettato successo. Tanto più che nell’arco di poco più di un anno, la Lega ha addirittura raddoppiato, alle europee, quella cifra, diventando primo partito in Italia. È sostenibile, è politicamente opportuno che la legislatura prosegua con il primo partito all’opposizione e gli sconfitti del 4 marzo al governo? Non si rischia di approfondire il solco tra “Paese legale” e “Paese reale”? Il presidente Mattarella si sta assumendo una enorme responsabilità. Dice: ma è stato Salvini a staccare la spina, dandosi la zappa sui piedi. Torneremo su questo, sui suoi errori – sia i presunti tali che quelli veri.

Non deve meravigliare che in queste ore tutto si giochi, come sempre, sulle poltrone. Niente moralismi: la politica, le politiche, camminano sulle gambe delle persone e sulle postazioni di potere che riescono a occupare. Il punto, semmai, è come ci si arriva. L’ultimo ostacolo rimasto sulla strada del Conte-bis sembra essere il ruolo di Luigi Di Maio nel nuovo esecutivo, su cui si sta consumando una resa dei conti ai vertici del Movimento. Lui vorrebbe essere confermato vicepremier. Sembra solo un’impuntatura personale, ma è una questione politica dirimente, sia per gli equilibri del nascituro governo che per il futuro del M5S. L’equivoco sta nella figura del premier incaricato Conte: se è in qualche modo terza, come nel governo con la Lega, tecnico d’area indicato dal M5S ma non del M5S, allora ci sta che si prevedano due vicepremier in rappresentanza dei due azionisti di maggioranza. Il Pd, però, sostiene che Conte sia espressione del Movimento e quindi ci debba essere un solo vicepremier, del Pd, per marcare la “discontinuità” con lo schema a due del Conte 1 ma anche per far fuori, dopo Salvini, anche Di Maio.

Vero, Conte fu indicato come premier dal M5S, ma che sia in realtà un tecnico di area Pd-Vaticano che gioca per la squadra del Colle, come già all’indomani delle europee avevamo avvertito qui su Atlantico, è ormai un dato acquisito. Non è mai stato iscritto al Movimento e lo votò per la prima volta solo il 4 marzo 2018, essendo stato inserito nella eventuale squadra di governo pentastellata come ministro della funzione pubblica, ma fino ad allora aveva votato per il centrosinistra. A prescindere dalle ultime rivelazioni di stampa, secondo cui sarebbe stato in contatto persino con il mondo renziano, pare ormai assodato che Giuseppi sia uomo assai più legato al sistema Pd che al Movimento. La figura ideale per celebrare il tanto a lungo annunciato matrimonio tra Pd e M5S e magari, chissà, guidare da “Papa straniero”, alla Prodi, una futura coalizione di centrosinistra.

La questione quindi è più complicata di un capriccio personale e ha a che fare con la leadership e la natura stessa del Movimento: negli ultimi mesi, soprattutto da dopo le elezioni europee, è apparso sempre più evidente il piano di Conte – sponsorizzato dal Colle, dalla stampa mainstream, e seguito con molto interesse in alcune capitali europee – di “normalizzare” il Movimento (“romanizzare i barbari” è l’espressione usata in casa Dem da quelli da sempre al lavoro per un’intesa Pd-5Stelle).

Dapprima si trattava di smussarne gli angoli per trovare punti di incontro con la Lega sui vari dossier. Poi, dopo le europee, la svolta: su impulso del premier gli eurodeputati 5Stelle votano la fiducia alla neo commissaria Ursula von der Leyen – 14 preziosissimi voti che si riveleranno decisivi, consentendo a Conte di poter vantare un credito personale a Bruxelles, Parigi e Berlino. Voti che, nel frattempo, ridefinivano i connotati politici del Movimento. Uno dei fattori che aveva fatto da collante tra Lega e 5Stelle, rendendo possibile il governo gialloverde, ovvero la condivisione di una forte opposizione alla politica di Bruxelles e all’asse franco-tedesco, veniva meno. Il M5S era passato dall’altra parte della barricata e la Lega si trovava isolata, a Roma e a Bruxelles, per mano del suo stesso alleato.

È del tutto evidente che se Di Maio cede, se non ottiene la vicepresidenza né un ministero di peso, Conte assume non solo la premiership ma anche la leadership di fatto del Movimento, spianandosi la strada per portare a compimento il processo di trasformazione da forza anti-sistema ed eurocritica a forza pienamente inserita nel campo progressista e nel sistema di potere italiano ed europeo. Uno sbocco gradito al presidente della Camera Fico ed evidentemente anche al fondatore Beppe Grillo, che ha inaugurato un inedito feeling con la classe dirigente Pd, prima raccogliendo l’apertura di Renzi, poi con il suo ultimo messaggio video – indirizzato non tanto ai “ragazzi del Pd” quanto ai “suoi” 5Stelle, spiazzati e divisi, e soprattutto ai recalcitranti Di Maio e Casaleggio – che ha ricevuto il plauso entusiasta, nell’ordine, di Franceschini, Gentiloni e Zingaretti. D’altra parte, accontentare Di Maio complicherebbe tutto sommato solo un po’ i piani del premier (che procedevano spediti già da prima, con i due vice), ma avrebbe il vantaggio di mettere il nuovo esecutivo al riparo da possibili rappresaglie parlamentari degli scontenti, almeno in una prima fase. Certo, renderebbe molto difficile invece per il Pd rivendicare una “discontinuità” con il precedente governo.

Resisterà Di Maio? Dipende da quanto si trova isolato, se ha ancora la copertura di Casaleggio e se può contare su truppe parlamentari numericamente insidiose per il Conte-bis. Poi c’è l’incognita del voto sulla piattaforma Rousseau, che si terrà martedì 3 su un quesito abbastanza esplicito, che cita sia il Pd che Conte: “Sei d’accordo che il MoVimento 5 Stelle faccia partire un Governo, insieme al Partito democratico, presieduto da Giuseppe Conte?”. Dovesse prevalere il no, sarà interessante vedere come si comporteranno i gruppi parlamentari. Ci sarà una scissione? A chi la titolarità del gruppo? E a quel punto, il Quirinale porterà avanti l’operazione, anche se con un pezzo di 5Stelle e numericamente ancor più traballante?

Con la dichiarazione di ieri (“definirmi premier dei 5Stelle mi sembra formula inappropriata”) Conte sembra aprire allo schema a due vicepremier e, quindi, a Di Maio. Mattarella farà ingoiare pure questa al Pd pur di chiudere in fretta? Si può davvero pensare di tenere praticamente fuori il capo politico del partito di maggioranza relativa? È realistico immaginare che il M5S, pur avendo il doppio dei parlamentari del Pd, possa restare senza vicepremier e rinunciare ai quattro ministeri chiave, mentre il Pd con i suoi tecnici d’area e la sponda di Mattarella occupa tutto l’occupabile, come già avvenuto di recente? La sorte toccata ad Alfano e alla sua creatura Ncd è dietro l’angolo…

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