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Ancora sangue in Kenya, ma la Jihad in Africa è ancora sottovalutata

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Sono trascorsi tre giorni dall’attacco terroristico al Dusit Hotel di Nairobi, capitale del Kenya, e ancora manca un bilancio delle vittime. Fonti ufficiali parlano di 14 morti, 21 dispersi e decine di feriti, di diverse nazionalità. Secondo al Shabaab, il gruppo jihadista somalo che ne è responsabile, le vittime sarebbero 47 e fonti di stampa ne contano circa 60. Peraltro il mondo già si è dimenticato dell’attentato, né vi ha dedicato molta attenzione, in effetti. Eppure, il 15 gennaio il commando dei jiahdisti ha preso di mira un albergo a cinque stelle e il vasto complesso circostante, con ristoranti, negozi, uffici. I terroristi sono arrivati a bordo di alcune automobili. Uno si è fatto saltare in aria, gli altri – forse quattro in tutto – dopo una seconda esplosione sono entrati nell’edificio principale sparando, uccidendo per primi i dipendenti e i clienti che si trovavano nella hall e poi man mano chiunque incontravano. Vi si sono asserragliati per 19 ore, finché non sono stati individuati e uccisi. Nel frattempo circa 700 persone sono riuscite a mettersi in salvo fuggendo dai vari ingressi.

Questa nuova strage avrebbe avuto altro risalto se ci si rendesse conto che è in atto una guerra mondiale, dichiarata dall’Islam jihadista all’Occidente, combattuta attaccando ovunque. Invece, quando i jihadisti colpiscono in Europa si insiste a definirli “lupi solitari” e, dei gruppi armati che agiscono in altri continenti, soprattutto in Africa, si sa poco, si pensa a gruppi armati di rilevanza locale, anche se legati ad al Qaida o all’Isis. Invece, sono cellule e gruppi che possono contare su collegamenti internazionali, in Africa in grado di spostarsi da un Paese all’altro, di controllare territori estesi, di interagire con organizzazioni criminali – contrabbandieri di droga, armi ed emigranti, trafficanti di uomini, bracconieri – e condividerne i traffici.

L’attacco al Dusit Hotel di Nairobi è l’ultimo di una serie di attentati devastanti compiuti da al Shabaab in Kenya, oltre che in Somalia dove il gruppo è nato nel 2006 legandosi ad al Qaida, dove continua a controllare una vasta parte del territorio nazionale e dove riesce a colpire con attentati la capitale Mogadiscio, mirando a edifici governativi, basi Amisom, la missione militare dell’Unione africana, alberghi e ristoranti frequentati da politici, diplomatici e militari. Il più clamoroso è stato messo a segno nell’ottobre del 2017 a Mogadiscio. L’esplosione di un mezzo carico di esplosivo in prossimità di un complesso che ospitava agenzie e truppe internazionali ha ucciso 587 persone e ne ha ferite 316.

In Kenya al Shabaab attacca in prevalenza in zone vicine al confine con la Somalia. Ma nel settembre del 2013 ha attaccato un centro commerciale di Nairobi, il Westgate. Per più di tre giorni un commando vi è rimasto asserragliato, prima che i reparti speciali riuscissero a uccidere tutti i combattenti. Il bilancio finale è stato di 67 morti e 200 feriti. Agli ostaggi domandavano se erano musulmani, facevano recitare versetti del corano per assicurarsi che lo fossero e lasciarli andare liberi. Nell’aprile del 2015 i jiadisti hanno attaccato il campus universitario di Garissa, 360 chilometri a nord est di Nairobi. Per un giorno intero, edificio per edificio, aula per aula, hanno cercato e ucciso 147 studenti, tutti gli studenti cristiani che non erano riusciti a scappare. Anche in quel caso hanno risparmiato gli studenti musulmani. Dalla Somalia al Kenya alla Tanzania, più a sud, seguendo la costa fino al Mozambico. Nel 2015 gli al Shabaab si sono insediati nella provincia settentrionale di Cabo Delgado dove hanno reclutato centinaia, forse migliaia di giovani e da un anno hanno intensificato attentati e attacchi.

Tutto questo si dimentica o si ignora, sottovalutando così forza, collegamenti internazionali, ideologia di questo come di altri gruppi jihadisti attivi in Africa. Da anni i presidenti somali che si avvicendano giurano che al Shabaab ha i giorni contati, che l’ennesimo attentato è solo un atto disperato prima della fine: e invece, perse le città e parte dei territori un tempo conquistati, continuano ad addestrarsi e preparare attentati, accogliendo jihadisti in fuga dal Medio Oriente, finanziandosi in Somalia con il contrabbando di avorio e di una droga chiamata khat ed esigendo dazi nelle zone che controllano, e in Mozambico con il contrabbando di legname, eroina e pietre preziose che nel nord del Paese rende milioni di dollari, complici agenti di polizia e funzionari governativi. D’altra parte, pochi lo ricordano o lo sanno, il governo somalo in realtà dal 2004, anno in cui l’intervento internazionale è riuscito a convincere i clan somali in guerra dal 1991 a tentare un accordo, deve unicamente il fatto di esistere ai finanziamenti e ai militari stranieri, senza i quali al Shabaab ancora avrebbe in mano la capitale e le principali città. Dal 2007 per proteggere le istituzioni politiche e contenere al Shabbab è stata istituita una missione dell’Unione africana, la Amisom, composta da 22.000 “caschi verdi” forniti da otto stati africani, ma finanziata dall’Unione europea che, per anni e forse ancora adesso, provvede tra l’altro al salario dei militari.

Tornando al Kenya, cellule di al Qaida sono presenti nel Paese da decenni, anche questo abbiamo dimenticato. Il 7 agosto 1998 un attentato dinamitardo suicida ha distrutto interamente l’ambasciata Usa di Nairobi, uccidendo 213 persone e ferendone 4.000. Contemporaneamente un’esplosione colpiva l’ambasciata Usa di Dar es Salaam, capitale del Tanzania. I danni furono minori e inferiore il numero delle vittime: 11 morti e 85 feriti.

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