Esteri

Il neocomunismo di Xi sta mettendo in ginocchio la Cina

Crisi economica sottovalutata da buona parte dei media italiani, soprattutto dai grandi quotidiani più influenti

Xi Jinping

È noto che in Italia i filo-cinesi siano tanti, e anche ben rappresentati in Parlamento. Questo spiega perché da noi la grave crisi economica che sta attraversando la Repubblica Popolare viene sottovalutata da buona parte dei media, e soprattutto dai grandi quotidiani più influenti.

Ritorno al marxismo

La verità è che la suddetta crisi non è misteriosa come si vorrebbe far credere, né impossibile da spiegare. Al contrario, ha origini ben precise. Si è manifestata con forza quando Xi Jinping, dopo aver “preso le misure” al Partito comunista, ha conquistato tutto il potere sconfiggendo avversari reali o anche solo potenziali.

Scordando che suo padre, uno dei “principi rossi” vicini a Mao, fu arrestato dalle Guardie Rosse, e fatto sfilare per le strade di Pechino con un cartello al collo. A differenza di tanti altri, egli non fu eliminato fisicamente dagli squadristi del regime, ma se la cavò con l’emarginazione dal potere.

Il figlio e attuale leader sembra affetto da una sorta di “sindrome di Stoccolma”. Onora infatti i persecutori del genitore e si è subito mosso per promuovere il ritorno in grande stile del marxismo-leninismo, ovviamente “arricchito” con tanti elementi di maoismo.

In realtà la Repubblica Popolare era già prima un Paese comunista, ma l’osservanza dei principi marxisti-leninisti funzionava più nella teoria che nella pratica. Deng Xiaoping, infatti, capì che per trasformare la Cina da nazione agricola, in cui circolavano quasi solo biciclette, in Paese prospero e industrialmente avanzato occorreva abbandonare il marxismo e i piani quinquennali di stile sovietico, per dare spazio all’iniziativa privata (anche se pur sempre controllata dal partito).

Fu così che venne lasciato spazio a tanti “tycoons” che fondarono aziende innovative, facendo schizzare in alto il Pil nazionale e portando la Cina a diventare la seconda potenza economica mondiale. Xi, quando non era ancora abbastanza forte, dapprima abbozzò. Tuttavia, conquistato tutto il potere e dopo essersi circondato di fedelissimi, ha mostrato il suo vero volto decidendo che il socialismo reale è più importante dello sviluppo economico.

Ecco quindi cadere le testa di tanti “tycoons” (come Jack Ma) che arricchendo se stessi arricchivano anche il Paese. Le loro aziende rovinate senza battere ciglio, con un semplice schiocco delle dita di Xi. Ed ecco anche la sostanziale indifferenza nei confronti della enorme bolla immobiliare che rischia di causare il default.

Convinto che l’ideologia debba sempre e comunque comandare l’economia, Xi e il suo gruppo di fedelissimi hanno proceduto senza remore a reintrodurre elementi ci comunismo, sicuri che quella fosse la strada giusta.

Segnali negativi

Nel frattempo, l’indebitamento è cresciuto a dismisura, così come la disoccupazione giovanile, di cui ora il Partito-Stato si rifiuta di fornire le cifre corrette.

Che Xi non sia affatto popolare presso l’opinione pubblica lo si è capito quando è stato costretto a terminare la politica dei lockdown totali praticata per molto tempo. Non è affatto merito suo, come vuole far credere la propaganda. È solo l’effetto di grandi proteste popolari che il leader ha prima cercato di stroncare con la forza, salvo rinunciare quando ha capito che la polizia non era in grado di farlo.

Si rammenti, inoltre, che parecchi settori del Partito non approvavano affatto l’alleanza “senza limiti” con la Russia di Vladimir Putin, ritenendo giustamente che interesse cinese fosse quello di allentare le tensioni con l’Occidente, vero partner commerciale primario della Repubblica Popolare.

I segnali per Xi Jinping, insomma, non sono affatto buoni, anche se per ora sembra conservare il controllo del Partito-Stato.

E varrebbe la pena che i tanti filo-cinesi occidentali riflettessero – ammesso che ne siano capaci – sulle prospettive future della Cina comunista. Resta un mistero infatti come molti politici e intellettuali siano tuttora convinti che una dottrina economica nata nell’Ottocento, in un contesto sociale completamente diverso, possa essere lo strumento migliore per affrontare i problemi della società contemporanea.

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