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“Bianco”, per reagire alla follia del politicamente corretto. Incontro con Bret Easton Ellis

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Una domenica di ottobre tiepida, l’ottobre che a Roma piega anche la più tenace delle resistenze con la mitezza. All’Auditorium Parco della Musica c’è la 14esima edizione della Festa del Cinema. Quest’anno il cartellone è particolarmente ricco, anche di eventi collaterali, come l’incontro con Bret Easton Ellis, lo scrittore americano che ha dato forma a capolavori come “Meno di Zero”, “American Psycho” e “Le regole dell’attrazione”. Ellis oggi è una voce scomoda (pure se non scrive romanzi dal 2010, dai tempi di “Imperial Bedrooms”). Felicissima la scelta di Antonio Monda di invitarlo a parlare di cinema, certo. Ma lo scrittore è venuto a Roma anche per presentare “Bianco” (Einaudi), il suo nuovo pamphlet d’accusa contro la piaga del politicamente corretto che sta infestando gli Stati Uniti ormai da diversi anni e, per riflesso, il resto del mondo occidentale. 

In conferenza stampa appare vivace e determinato. Il cinema, appunto. Gli anni ’70. Gli anni in cui, da quanto scrive su “Bianco”, vedeva uno o più film al giorno; era un adolescente cresciuto con American Graffiti, con I Cancelli del Cielo, Il Cacciatore, ma soprattutto con l’horror. L’horror che lo ha aiutato a crescere, come ha provocatoriamente suggerito, in una sorta di rito di passaggio solipsistico (non a caso fra i film scelti per parlare con Antonio Monda di cinema americano c’è Carrie di Brian De Palma tratto da Stephen King). Il cinema che è cambiato come tutta la cultura pop occidentale. Come la società. Una delle sue tesi del libro è che negli anni ’70 non eravamo ancora entrati nella fase infantile della società. I figli/bambini non erano il centro del mondo familiare/istituzionale. Non si cresceva necessariamente ‘viziati e iperprotetti’, ognuno i suoi riti di passaggio se li faceva un po’ come capitava; la strada; la scuola, gli amici. Senza troppi piagnistei. (Aggiungo io: ti sfottevano, ti menavano? Reagivi. Si faceva a botte. Oppure stavi zitto e facevi pippa. Pure così si cresce.)

Si parla anche delle diverse generazioni di cinefili e/o autori cinematografici. I registi Martin Scorsese e Francis Ford Coppola che oggi attaccano i film della Marvel. Bret che non fa una piega.

“Coppola ha 80 anni e i suoi migliori film li ha fatti 40 anni fa. Triste, ma questo è. È ovvio che disprezza i film della Marvel. Perché, essendo anch’essi dei sogni, si stanno sostituendo ai suoi. Nel suo sogno degli anni ’70, e in quello della vecchia Hollywood, c’era la convinzione che i suoi sogni e il capitalismo potessero coesistere. Il Padrino ne è un esempio; un grande film d’autore diventato anche un blockbuster. In realtà quella sua convinzione non è si verificata affatto. Nella tendenza a sminuire i film della Marvel, che sono appunto sogni, vedo un certo snobismo. Alla gente piacciono, tutti corrono a vederli. E non sono sicuro che il pubblico abbia sempre torto. A me non piacciono però; mi sembrano noiosi e molto conservatori. Tutti i protagonisti sono ricchi, potenti, governano paesi. Non mi sembra che quello descritto dalla Marvel sia un perfetto mondo democratico. Non sono nemmeno film d’autore. Nessuno si preoccupa più di tanto di chi possa dirigerli; i registi a Hollywood vengono ormai licenziati dopo un film se non va bene al botteghino”.

A me però interessa parlare del libro. L’ultima domanda della conferenza stampa prima dell’incontro ristretto cui avremo accesso ci apre la strada. “Bianco”? Perché quel titolo controverso?

“Il titolo non dovrebbe essere affatto controverso. È il mio lavoro, perché dovrebbe essere controverso? Ed è molto noiosa come risposta. Pensavo a una mia amica giornalista, Joan Didion, che ha scritto un bellissimo libro di racconti chiamato The White Album (pubblicato in Italia da Il Saggiatore, nda) e che ho recensito. Il mio editor voleva che dessi un titolo al libro e io volevo qualcosa con bianco. Così me ne sono uscito con un titolo scherzoso, Bianco, ricco e privilegiato, pensavo fosse ironico e divertente, rifletteva un certo punto di vista. Il mio editor ha però obiettato che forse, rispetto al registro del libro, fosse troppo scherzoso e così ha suggerito di togliere ricco e privilegiato ed è rimasto bianco. Ecco come è nato il titolo. In fondo quello che si dice nel libro è che bisogna calmarsi, non bisogna dare un colore a tutto. Rosso come scontro, arancio di rabbia, verde d’invidia o nero. Raffreddiamo e riportiamo al neutro ogni cosa; pensiamo in bianco.”

L’incontro ristretto si svolge in sala stampa. (Nota personale, ringrazio profondamente l’ufficio stampa della Festa del Cinema di Roma, sono stati splendidi). Ci sediamo, io, il ragazzo dell’Huffington Post e un’altra ragazza di cui non ricordo la testata (sorry!).

Lui, imponente nella sua Lacoste nera, ci raggiunge. Si parla subito di Millenials. Non li ha risparmiati in “Bianco”, povere creature fragili. “Non sono un esperto di Millenials, quando ho twittato su di loro stavo semplicemente prendendomi gioco di certe loro cose, ma la gente ha iniziato a stranirsi. Su di loro ho scritto un articolo e molti si sono arrabbiati (nda, li ha accusati di essere dei narcisisti, stupidi e vittime di se stessi e della mania tutta progressista di vittimizzarsi; li ha definiti Generation Wuss, lì dove Wuss è un sinonimo di Wimpy – rammollito – termine, Wuss, coniato per la prima volta nel 1964 in una scuola media di San Diego). Io sono più vecchio e vengo da un’altra generazione (chiamata X negli anni ’90, nda) e non sono un esperto. Dico solo che verso di loro sono, oggi, più comprensivo, soprattutto per il fardello della crisi economica che portano ma mi infastidiscono, che volete farci? Non è la fine del mondo. In fondo hanno fatto solo quello che sono capaci a fare: reagire in maniera isterica”.

E i genitori?

“I genitori in un certo senso sono più attenti, hanno più cura dei figli e questo li ha resi più sensibili, troppo. I miei non lo erano affatto, ma credo che questa generazione non li prepari abbastanza per affrontare la durezza della vita. Sono, questi ragazzi, così fragili a livello nervoso, c’è questo alto tasso di suicidi, di farmaci consumati. Ti dico, quando io ero a scuola non c’erano le sparatorie di adesso, eppure avevamo lo stesso accesso alla compravendita di armi. Sono deboli, i Millenials. Forse la soluzione sta nel mezzo fra i metodi dei miei e di questi nuovi genitori. I miei non mi chiedevano mai: vuoi vedere questo film? Cosa vuoi per cena? Questi invece chiedono in continuazione cosa vuoi? Cosa vuoi? Sono iperprotettivi e non li preparano ad affrontare la vita”.

Parliamo del politicamente corretto. Che cosa si può fare per bloccare questo nuovo totalitarismo?

“Rispondere, difenderci. In qualità di artista e scrittore io mi esprimo e mi aspetto che la gente voglia che io mi esprima liberamente. Qui non si parla di discorsi d’odio. Qui si parla della possibilità di scrivere ciò che penso su una certa cosa, così come si ha la possibilità di non leggere ciò che scrivo, non guardare quel quadro, non vedere quel film. Nessuno però deve avere il diritto di censurare solo perché una cosa non piace. Invece tutto ciò negli Stati Uniti sta succedendo. Coi quadri, con i libri, con i film. E in particolare sta influenzando i social, dove tutto si censura. E sta succedendo pure nel mondo dell’editoria e la cosa è piuttosto allarmante. Se il romanzo non è sufficientemente corretto politicamente, se lo scrittore, dicono, si è appropriato di un’altra cultura, allora è censurato; arriva una lettera di protesta e l’editore o lo scrittore stesso bloccano il libro. Viviamo un momento folle, folle davvero. Viviamo in una società in cui nessuno sa cos’è un artista, non solo, nessuno sa cosa farci dell’arte, come vivere l’esperienza artistica. Il grande scontro, oggi, di cui parlo nei miei podcast radiofonici, è fra l’ideologia e l’estetica. È scioccante vedere gente nell’industria culturale che si autocensura. C’è gente come Sarah Silverman che dice che bisogna autocensurarsi perché viviamo in un’era diversa e dobbiamo adattarci. No, io non mi adatto nemmeno per il cazzo a questa stupida era. Cioè io dovrei cambiare il mio modo di scrivere storie perché la gente si offende? No, mi spiace. Adesso, a questo punto della mia carriera, non cambio. Io ho sempre offeso qualcuno e non so come fare il contrario. Non saprei nemmeno come cominciare a non offendere. Fa paura questa cosa, l’artista si autocensura, teme di dire delle cose, dar voce alle sue opinioni. Credo però che abbiamo raggiunto un punto di non ritorno e c’è gente che comincia a sentirsi quel cappio intorno al collo da cui io sono sfuggito”.

Si parla poi di serie tv e del nuovo film di Tarantino. Del fatto che non necessariamente le serie sono migliori dei film e che Tarantino, nel suo ultimo “C’era una Volta Hollywood” gli ha detto che voleva fare un film solo per il cinema, un film dove la gente non poteva che guardarlo su grande schermo; non a casa, non sul divano; ma lì come ai vecchi tempi. E che il film sarebbe potuto durare nove ore e non tre. C’è un’ultima domanda. Non la faccio io. Ma merita di essere riportata per la risposta.

Lei si sente contento di essere americano in questo particolare momento?

“Sì, sono molto contento di essere americano in questo particolare momento. O meglio, posso essere anche triste e scontento di ciò che sta avvenendo ma penso che oggi più che mai bisogna sentirsi fieri di essere americani, proprio per stemperare ciò che sta avvenendo. Non mi vergogno di essere americano, sono fiero di essere americano, anzi un maschio bianco americano, e tuttavia io prima di tutto sono uno scrittore”. Cos’altro aggiungere?

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