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La bolla è scoppiata: il rabbioso tramonto di una specie dalla presunta superiorità morale e culturale

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Calenda, il pariolino parolaio, confermando le indiscrezioni de La Verità e sbugiardando se stesso fonda Siamo Europei, il suo movimento aristocratico: ci fosse un povero cristo, tutti chirurghi, baroni, redditieri vista Colosseo o Battistero. Personcine danarose e paroline zuccherose: eccola lì, la sinistrella bon vivant alle cene da seimila euro del salottismo cafone dei nuovi intriganti e i nuovi ambiziosi. Così che l’avvocatessa Boschi può farsi insolentire dal turista Di Battista col sarcasmo sulla banchiera griffata. Di Battista è più miracolato della Boschi, ma può irriderla perché la confraternita del Giglio va oltre il tafazzismo gioioso, arriva all’autocannibalismo compulsivo, alla dipendenza da potere, a qualunque prezzo. Rappresentativi di un nucleo duro in frantumazione: una snob, su Twitter si vanta d’aver elargito 10 euro al migrante che da sei mesi le porta le borse al supermercato; poi si lagna degli attacchi ricevuti. Ma chi polemizza, sia pure in modo rozzo, non reagisce alla regalia quanto ad una manfrina che ha percepito benissimo: io posso permettermi il paternalismo classista natalizio e voi siete straccioni.

O dell’alter-razzismo cafone di stampo europeista-boninesco, i migranti da far venire perché ci servono, alla lettera, ci portano la sporta. A chi scrive è stato fatto notare che non hanno colpa i migranti del rango finanziariamente trascurabile degli indigeni, e a sostenerlo (“la vostra è una guerra tra poveri”) era una ristoratrice di provincia che non fa entrare nessuno senza una carta da 50, vini esclusi. Figurati quanti ne sfama di migranti. Ma per convincersi d’essere dalla parte giusta le basta un tatuaggio del tempo che fu e l’insulto al Salvini di oggi. Mai tanto scollamento fra individui comuni (la famigerata “gente”) ed élite culturale, mai tanto scostamento fra chi scrive e chi legge, tra i divi e chi li consuma al cinema, a teatro o al concerto. In America come in Italia, in Francia come sempre più nel resto d’Europa. Negli Stati Uniti le star dell’opportunismo, la lobby del qualunquismo divistico come De Niro, Springsteen, Tony Bennet, cantano a comando e maledicono o insultano Trump, colpevole di continuare a far girare l’economia e, con essa, il gradimento della maggioranza degli americani. Qui restiamo provincia dell’impero, siamo al Festival pro migranti e ce la caviamo con l’anatema fumettaro, con le intemerate deliranti di Michela Murgia. Ma è nella nuova frontiera della rete che si coglie la mutazione genetica di chi partecipa alla discussione pubblica, quanto a dire il rabbioso tramonto di una specie che da queste parti ha tenuto banco per decenni, sostenuta da una assai presunta superiorità morale e culturale: se il Saviano di turno lancia la fatwa quotidiana su Twitter, ormai viene seppellito da commenti irriguardosi che allegramente se ne impipano del suo cipiglio poseur.

Agli indignati in servizio permanente effettivo, che Guareschi chiamava trinariciuti, non va molto meglio: in due parole, non attacca più, non fanno più nessuna soggezione. Accade che una intera stagione di discredito democratico, dai datzebao di Lotta Continua fino alle gogne prima da forum e poi da social, si vada sfarinando, seppellita da reazioni impermeabili all’incantesimo dello spocchioso di sinistra che indisturbato giudicava e mandava, che poteva promuoverti nel club democratico quanto condannarti alla geenna del disprezzo per gli impuri. Una mutazione in corso da anni, ma che sembra avere trovato una consacrazione con l’avvento del populismo grilloleghista. Certo, certi vizi, certi tic sono duri a morire: esisterà ancora l’intossicato di ideologia, l’apostolo dalla coda di paglia, ma questo modo di percepirsi di sinistra, rozzo, volgare sotto le formule tra il mellifluo e l’arrogante, è scoppiato. È finito perché ormai il grottesco è scoperto, perfino patetico; perché i sacrari di quelli “dalla parte giusta” diventano riserve indiane; perché i sacri princìpi del marxismo-leninismo, questi non li sospettano neanche e, se pure li hanno orecchiati, li hanno rimossi per tempo: eh, cari compagni, non basta la spocchietta malevola e un po’ di grana grossa, non basta il tatuaggino militante, il pugnetto chiuso o la pompa da centro sociale o paragonare il Salvini di turno a Hitler. È la fauna dei bon vivant orfani del lobbismo salottiero verusiano, oggi convertito in plateali tavolate da seimila euro dal sapore trash, in certe faccione sgradevoli che a suon di strafalcioni ostentano disprezzo per gli elettori eretici, nei professionisti del birignao televisivo con le stimmate della gloriosa stagione extraparlamentare, nei competenti nell’arte di arraffare cattedre, cadreghe, prebende. O fondare improbabili movimenti che, più che all’Europa, guardano alla segreteria.

Ma non funziona più, non attacca più. Non basta auspicare la società egualitaria circondati da un lusso più o meno incontaminato, non basta aprire (metaforicamente) i porti ma chiudere i ristoranti. Non basta invocare porti aperti ma puntare soprattutto su quello di Sanremo. Questa nobile schiatta sta schiattando perché è quella che è sempre stata e che non può smettere di essere. Odiosa, impudente. E allora continuassero pure ad agitarsi a “Che tempo che fa”, ma sappiano che sono morti senza saperlo. Se ne facessero una ragione.

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