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Brasile: ecco le ragioni che spingono Bolsonaro verso la presidenza

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C’è un dato che meglio di ogni altro è in grado di spiegare il senso e le ragioni di fondo di questa campagna elettorale brasiliana. E il dato è questo: il numero di sparatorie (quasi tutte nei perimetri urbani) avvenute nel 2018 nello Stato di Rio de Janeiro (5.170) ha superato ieri lo stesso numero relativo all’intero 2017 (5.144). E mancano ancora circa 2 mesi e mezzo alla fine dell’anno (quindi, alla media di circa 500-600 sparatorie al mese, altre 1.200-1.500 sparatorie che si sommeranno a quelle registrate fino al 17 ottobre).

Nella sola città di Rio, il dato per il 2018 è di 3.544 sparatorie. Gli altri fenomeni sono registrati soprattutto nella cintura metropolitana della Grande Rio, nei suoi suburbi, in municipi popolosi e dal basso livello economico della popolazione, dove la presenza della criminalità è molto più sensibile che nelle zone della Rio che conosciamo abitualmente, quella della classe media e medio-alta. Ma la presenza di numerosissime favelas anche nella zona borghese della città, appollaiate in genere sulle colline che scandiscono il paesaggio e lo skyline della Rio amata dai turisti, rende la vita complicata anche agli abitanti dei quartieri bene, dove comunque i “venti di guerra” – la guerra condotta quotidianamente dalla polizia speciale e dall’esercito contro gli eserciti dei trafficanti che impongono la loro legge col terrore nella propria comunità, armati di tutto punto e dotati di armamenti sofisticati, come truppe di un vero e proprio esercito di terroristi – arrivano ben attenuati rispetto all’orrore di una quotidianità fatta di poliziotti ammazzati da trafficanti, trafficanti ammazzati da poliziotti o da bande rivali, civili colpevoli solo di abitare nel posto sbagliato colpiti a morte dalla “normalità” delle “balas perdidas”, le pallottole vaganti che fanno fuori nella Grande Rio centinaia di persone ogni anno.

Intendiamoci, con questa quotidianità i brasiliani ci devono necessariamente convivere. Ma col passare degli anni il peso dell'”ansia da insicurezza” porta le persone a ripensare a molti dei loro valori etici e civili per dare sfogo agli istinti più viscerali pur di mettere fine a una insopportabile limitazione delle proprie libertà personali: a questo si riduce, in fondo, il senso di insicurezza stratificatosi ed ormai esacerbato nell’animo della gente.

Ecco, ora avete un quadro di quella che è la situazione sociale a Rio e in generale del Brasile, del quale la città di Rio rappresenta tutte le bellezze e tutti i problemi in quella miscela esplosiva di atroci e meravigliose contraddizioni.

In questo clima, che dura ormai da molti anni, la risposta data nei 14 anni di governi di Lula & co. è stata una giustificazione ideologica, sociologica della criminalità, la quale sarebbe l’effetto di fattori economici e sociali la cui responsabilità a monte è ovviamente da ricondurre alle classi ricche, alle élites non meglio definite e al capitalismo in generale. Il guaio, per Lula e i suoi, è non essere riusciti a coniugare questa loro utopistica visione della realtà brasiliana con una politica di crescita della società, dell’economia, del livello di educazione del Paese, ma di avere invece fatto di tutto per mandare a ramengo le chances di decollo che erano maturate all’inizio della presidenza Lula, non certo per meriti del PT ma per favorevoli condizioni internazionali e dei mercati (Petrobras e Vale do Rio Doce, le due piú grandi aziende brasiliane, si avvantaggiarono assai brillantemente della crescita del costo delle materie prime e spiccarono il volo verso capitalizzazioni mai immaginate prima).

Lula, oggi in galera, e il suo PT (la cui cupola dell’intera direzione politica è stata condannata alla galera già da vari anni per una serie di scandali politici e finanziari che hanno gettato discredito sull’intero Parlamento di Brasilia), accreditati oggi del più alto indice di “rejeição” (cioè di “rigetto”) nel panorama dei partiti brasiliani, pur restando ancora uno dei più presenti in Parlamento per il consueto en plein dei voti negli Stati del Nordeste, ha perso ormai carisma e potere al punto che l’ultima mossa di campagna elettorale attuata dagli strateghi del PT per tentare l’impossibile rimonta sul candidato favorito è stata quella di cancellare del tutto l’immagine di Lula e il colore rosso dai santini, dai fondali e dai manifesti elettorali. Mossa della disperazione che non sortirà effetto alcuno.

E allora, arriviamo finalmente a Jair Bolsonaro, il grande favorito, ormai presidente in pectore del Brasile. Uomo non di altissima levatura intellettuale (anche se di fronte a Lula e, soprattutto a Dilma Roussef, fa la figura di uno Schopenhauer), uomo di principi che a noi italiani possono far sorridere (conservatore alla stregua di un mio vecchio zio colonnello di cavalleria nell’immediato Dopoguerra), no all’aborto, no alla droga, no alla mano debole con chi delinque, si alla mano dura, si alla certezza della pena, si alla detenzione di armi per legittima difesa, ecc. Tutti principi di una destra-destra che più destra non si può, ma espressi e coltivati non in forma ideologica, partitica – come quella del PT, che fa del “potere” a tutti i costi l’obiettivo principale da raggiungere e mantenere con militare disciplina di partito (se lo conoscessero, potrebbero intitolare questo genere di politica del potere a Primo Greganti…) – bensí con una libertà di atteggiamenti che prevede, ad esempio, idee liberali sul piano dell’economia e del mercato, privatizzazioni di imprese pubbliche, riduzione del peso e della presenza dello Stato nella vita pubblica, riduzione del numero dei partiti, ecc. ecc., e che ha visto la scelta come ministro da fazenda (il ministro dell’economia), di uno stimatissimo economista liberale, Paulo Guedes.

Voi capite bene che, in un paese con un bilancio di guerra urbana paragonabile, per numero di omicidi violenti e di morti ammazzati, a quello della guerra in Iraq, dove se abiti in uno dei suburbi di una grande città devi stare attento a non ritrovarti al centro di una sparatoria tutte le volte che esci di casa, l’aspettativa, l’ansia, il bisogno “fisico” di sicurezza è la priorità largamente condivisa da tutte le fasce della popolazione, e la risposta garantita da Bolsonaro finisce per prevalere nettamente su quella demagogica, inconcludente e falsamente garantista dei governi del PT (il numero dei reati è andato aumentando e lo stato dei penitenziari brasiliani è in stato comatoso da molti anni, senza che i governi di sinistra abbiano mosso un dito in questo senso, impegnati solo a rastrellare denaro pubblico rubato alle grandi aziende nazionali).

Ecco quindi alcune delle ragioni del più che probabile successo di Bolsonaro. Molte altre ve ne sono, non ultima (anzi…) la sua azzeccatissima regia della propaganda in rete. Non è forse superfluo ricordare che il piccolo partito di Bolsonaro aveva, nella suddivisione degli spazi televisivi della campagna (che in Brasile dura mesi) appena 1 minuto rispetto ai 15 e passa minuti dei partiti maggiori, per ciascuna delle trasmissioni di propaganda elettorale previste dalle tv brasiliane (un po’ come i nostri “spazi autogestiti” dai partiti delle campagne elettorali di una volta). Malgrado questa clamorosa inferiorità di mezzi, attraverso un uso efficacissimo della rete, Bolsonaro ha ottenuto il risultato straordinario che che è sotto gli occhi di tutti. Ricorda forse un po’, in questa cavalcata vincente, quella – durata però alcuni anni – realizzata dal movimento grillino. Dubito però che le similitudini vadano molto oltre questo singolo aspetto. Almeno lo si spera.

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