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Cento anni fa nasceva Ian Douglas Smith, il ribelle rhodesiano

Cade oggi il centesimo anniversario della nascita di una delle figure più interessanti e controverse della politica conservatrice del ventesimo secolo, lo storico leader della Rhodesia Ian Douglas Smith. Rispetto ai più celebri leader conservatori, Smith ebbe la sfortuna di portare avanti le idee conservatrici, occidentaliste e di tradizione anglosassone nel più ostico degli scenari – combattendo una battaglia politica che non aveva ragionevolmente possibilità di vincere.

Quando si parla di Ian Smith e si prova a compiere un’analisi del suo percorso politico, c’è sempre una parola – un’accusa – con cui ci si deve confrontare: “razzismo”. Inutile provare a sottrarsi a questa questione, che quindi è bene affrontare per prima. Ian Smith fu un politico “razzista”?

Per poter rispondere a questa domanda, innanzitutto è necessario effettuare la dovuta contestualizzazione storica, dato che l’assetto che, nel 1965, Smith si trovava a sostenere in Rhodesia – il governo di una élite bianca – era semplicemente quello che solo cinque o dieci anni prima era considerato normale per l’Africa da qualsiasi rispettabile governo europeo. In questo senso, se si accusa Ian Smith di “razzismo”, l’accusa andrebbe estesa a tutti i capi di governo britannici o francesi che fino a poco prima governavano il continente nero.

In secondo luogo, se è vero da un lato che il premier rhodesiano era convinto che la distanza culturale tra bianchi e neri in Rhodesia fosse troppo grande per rendere possibile o desiderabile una piena integrazione – tanto meno un “governo della maggioranza” – egli non ha mai pronunciato una sola parola dalla quale potesse trasparire astio o disprezzo nei confronti della popolazione nera.

“Non ho mai avuto problemi a vivere insieme ed ad andare d’accordo con i nostri neri. C’era una distanza culturale nelle nostre rispettive culture, tradizioni o stili di vita, ma purché le cose fossero fatte nel tempo necessario e mantenendo gli standard di civiltà occidentali, non c’era ragione per cui non potessimo vivere insieme con beneficio di tutti ed inserendo pian piano i nostri neri nel sistema”.

Smith ha sempre sostenuto come il concetto del modello rhodesiano fosse quello della meritocrazia, all’interno del quale la dinamica dei rapporti razziali si sviluppasse all’insegna dell’”evoluzione”, anziché della “rivoluzione”. “Non c’è nessuna legge” – amava ripetere – “che impedisca ad un nero di sedere sulla mia stessa poltrona di primo ministro”.

Certo, i critici replicheranno che quelle di Smith altro non erano che affermazioni astratte e che la struttura rhodesiana era architettata in modo da garantire indefinitamente un primato politico della minoranza. Non potremo mai avere la prova, dato che l’esperimento politico rhodesiano fu sopraffatto dagli eventi, prima che potesse consolidare i propri frutti.“Eravamo convinti – scrive Smith nella sua autobiografia – che il nostro sistema fosse corretto. Purtroppo il mondo libero, che inizialmente ad esso aveva contribuito, ad un certo punto cambiò idea e ci negò la possibilità di mettere alla prova i nostri convincimenti”.

Smith, che durante la guerra era stato pilota dell’aviazione britannica e, abbattuto, aveva combattuto per un periodo in Italia a fianco della resistenza, era nato in Rhodesia. La Rhodesia era un paese giovane e Ian Smith fu il primo tra i suoi premier ad esservi nato. Questa circostanza era per lui motivo d’orgoglio e gli ispirava un attaccamento particolare al suo paese. “C’è una cosa che ci distingueva dai funzionari coloniali mandati dalla Gran Bretagna. Loro tornavano a casa ogni qualche anno; noi tornavamo a casa ogni sera”.

La Rhodesia godeva di autogoverno interno dal 1922 e dal 1933 il suo primo ministro partecipava alle riunioni del Commonwealth insieme a quelli di Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica. In quarant’anni la minoranza bianca della Rhodesia aveva gestito bene il suo paese che, per molti versi, rappresentava l’unica vera “success story” che il Regno Unito potesse vantare in Africa. Era evidente che nei rhodesiani fosse forte l’aspettativa di veder premiato il proprio lavoro con la piena indipendenza.

Tuttavia, nel 1960 il discorso “Wind of Change” del premier britannico Harold MacMillan segnò una svolta epocale nell’atteggiamento britannico nei confronti della questione coloniale. Era finita l’era del “white man’s burden” e cominciava quella della liberazione africana. Il Regno Unito accompagnò all’indipendenza, spesso in modo frettoloso, le sue colonie africane, anche prive di qualsiasi precedente esperienza di autogoverno. Al tempo stesso Londra fu tetragona nell’opporsi all’indipendenza della Rhodesia finché il potere non fosse trasferito alla maggioranza nera – una condizione inaccettabile per la popolazione bianca del paese.


Ian Smith diventò primo ministro della Rhodesia nel 1964, sostenuto da un chiaro mandato elettorale per traghettare il paese alla sovranità. Esaurita ogni opzione negoziale, il governo di Smith si trovò a giocare la carta estrema, quella di una Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza – UDI nel suo allora popolare acronimo inglese.

“A noi è stato dato il privilegio di essere la prima nazione occidentale negli ultimi due decenni ad avere la determinazione e la forza di dire ‘Adesso basta’. Saremmo anche un piccolo paese, ma siamo un popolo determinato che è stato chiamato a giocare un ruolo di rilevanza mondiale. Noi rhodesiani abbiamo rifiutato la filosofia dogmatica dell’appeasement e della resa. La decisione che abbiamo preso oggi è il rifiuto dei rhodesiani di svendere i propri diritti. Ci siamo schierati per la preservazione della giustizia, della civiltà e della cristianità – e nello spirito di questo credo abbiamo assunto la nostra sovrana indipendenza”.

Con queste parole, Ian Smith, l’11 novembre del 1965 rendeva la Rhodesia il secondo paese, dopo gli Stati Uniti nel 1776, a ribellarsi all’autorità britannica. La reazione britannica fu durissima. Londra portò la questione rhodesiana alle Nazioni Unite e promosse un embargo internazionale nei confronti della Rhodesia. Pur nella condizione di pariah, il paese continuava a crescere; era ricco di risorse e ben amministrato.

Smith continuò a promuovere vari iniziative negoziali per ottenere un riconoscimento da parte del Regno Unito, ma tutte si conclusero con uno stallo. Sul piano interno, allora, si dedicò al consolidamento costituzionale della nuova Repubblica della Rhodesia.

Contrariamente al modello di apartheid sudafricano, il modello rhodesiano non escludeva a priori i neri dal processo di decisione politica; per votare, tuttavia, servivano una certa istruzione ed un certo reddito e questo determinava, nei fatti, un elettorato a forte maggioranza bianca.

Per un certo numero di anni la Rhodesia fu in grado di alleviare la pressione dell’embargo, grazie alla solidarietà del Portogallo e del Sudafrica. Tuttavia è a partire dal 1974 che i rapporti di forza mutarono definitivamente a sfavore della causa rhodesiana. La “rivoluzione dei garofani” metteva fine all’impero portoghese e consegnava il Mozambico ad un governo filo-sovietico; al tempo stesso le pressioni americane convincevano Pretoria a ridurre sensibilmente la propria collaborazione con la Rhodesia.

Smith comprese che non esistevano alternative ad una sostanziale apertura negoziale verso il nazionalismo nero e, nel tempo, si rese conto come questa nuova dinamica non potesse che sfociare verso il suffragio universale.

Alle elezioni del 1977 la sua leadership fu contestata da un nuovo partito alla sua destra che lo accusava di cedimenti. Tuttavia, Smith, ottenne ancora una volta un travolgente successo al voto, riuscendo a far comprendere all’elettorato il suo messaggio sull’inevitabilità del cambiamento.

Dopo un lungo e delicato negoziato, nel 1978 Smith raggiunse un accordo con le ali più moderate del nazionalismo nero. Venne varata una nuova costituzione che garantiva il suffragio universale, in cambio di una serie di tutele per la minoranza bianca. Le nuove elezioni condussero il primo giugno del 1979 alla nascita della Repubblica di Zimbabwe-Rhodesia con il vescovo Abel Muzorewa alla guida di un governo di coalizione a maggioranza nera, nel quale Smith conservò il ruolo di ministro.

Malgrado il nuovo Stato rispondesse a tutte le condizioni storicamente poste da Londra per un riconoscimento, il governo britannico, in virtù della pressione degli Stati neri del Commonwealth, mantenne la sua opposizione ad un riconoscimento.

Pochi mesi dopo il Regno Unito convinse Muzorewa a lasciare il potere ed a riportare il paese sotto l’autorità britannica per nuove elezioni che includessero anche i partiti dei leader guerriglieri Robert Mugabe e Joshua Nkomo. Smith fu contrario a questa soluzione che disarmava il governo rhodesiano e lasciava campo libero alla guerriglia per condizionare il voto. Per di più Muzorewa era destinato ad arrivare “bruciato” alle elezioni, in quanto associato al breve governo di coalizione con i bianchi.

Il marxista-leninista Robert Mugabe vinceva largamente le elezioni ed assumeva la guida dello Zimbabwe. Smith nei primi tempi provò a mantenere un atteggiamento collaborativo con il nuovo governo, comprendendo bene il pericolo per la minoranza bianca di essere percepita strutturalmente come un’opposizione – magari l’unica opposizione – al nuovo potere. Tuttavia, ben presto le violazioni delle libertà democratiche da parte di Mugabe divennero così manifeste che un atteggiamento benevolente o agnostico non poteva più essere sostenibile.

Smith riorganizzò il suo vecchio partito, il Rhodesian Front, nella Conservative Alliance of Zimbabwe, alla testa della quale conquistò 15 dei 20 seggi riservati alla minoranza bianca alle elezioni del 1985, su posizioni di chiara opposizione al governo di Mugabe.

Per l’ex-premier rhodesiano fu l’ultima vittoria di una lunga carriera politica. L’anno successivo fu espulso dal parlamento e nel 1987 i seggi riservati ai bianchi furono definitivamente aboliti, mentre lo Zimbabwe si avviava a diventare, de facto, uno Stato a partito unico.

Negli ultimi anni Smith continuò ad occuparsi di politica ed a rappresentare, anche fuori dal parlamento, una voce autorevole dell’opposizione al regime di Robert Mugabe. Visse in Zimbabwe fin quasi alla fine, per poi morire in Sudafrica nel 2007, dove i figli lo curarono nell’ultimo periodo.

Nel suo paese, Smith, fu certamente un politico di successo. Che lanciasse una sfida “alla pari” alla Gran Bretagna o che riconoscesse, anni dopo, la necessità di accettare un governo a maggioranza nera, in ogni elezione i successi di Smith erano talmente incontrastati che era manifesto che parlasse pienamente a nome della popolazione bianca.

Era altrettanto innegabile che non avesse il sostegno della maggioranza nera e che ciò in ogni caso si sarebbe rivelato con il tempo un fattore insostenibile.

Eppure negli ultimi anni della sua vita, quanto più diventava evidente la devastazione economica, sociale e morale operata dal regime di Robert Mugabe, tanto più il vecchio leader rhodesiano veniva rivalutato da tanti cittadini neri che tra l’altro ne rispettavano la dignità e l’austerità ed il fatto di continuare a vivere, malgrado i pericoli e le difficoltà, nel paese che amava ed al quale aveva legato il suo impegno politico.

Quando Smith morì, Morgan Tsvangirai, eroe dell’opposizione democratica a Mugabe, lo ricordò così: “Se fosse un nero, direi che è stato il miglior capo di governo che questo paese abbia mai avuto.”

E’ una frase significativa; è chiaro che esiste una distanza troppo grande in termini di cultura, memoria storica e narrazione, perché la popolazione nera dello Zimbabwe possa mai sentire sua la figura dal vecchio premier rhodesiano. Eppure chi in Zimbabwe sia disposto a valutare il passato senza paraocchi ideologici può riconoscere che Ian Douglas Smith amministrò il suo paese con una visione economica, un decoro istituzionale ed un attaccamento sconosciuto alla leadership comunista che gli è succeduta.

L’eredità di Smith e della Rhodesia merita di essere difesa per il suo significato in termini di valori occidentali, ma al tempo stesso deve anche essere sottratta alla sguaiata appropriazione di qualche moderno “estremista di destra”.

L’era rhodesiana non fu “estrema destra”. Fu la creazione pionieristica di una nazione, dalla terra nuda e dai primi accampamenti fino alla costruzione di un’economia di successo e di un’identità; fu lo sforzo di creare e difendere la prosperità attraverso il lavoro e la conoscenza; fu il tentativo, forse fuori tempo massimo, di estendere le frontiere dell’Occidente in un momento in cui invece la parola d’ordine era quella del ripiegamento. Fu anche il difficile equilibrio tra l’affermazione di princìpi e l’ineluttabilità del realismo politico.

Ian Smith non fu un estremista; aveva combattuto in guerra il nazismo e la sua cultura era impregnata dei princìpi culturali ed istituzionali della tradizione anglosassone; se fosse vissuto negli Stati Uniti o in Australia sarebbe semplicemente considerato un “principled conservative”.

È stato un leader significativo – e questo è riconosciuto anche da molti suoi detrattori – per quanto difficilmente la Storia ufficiale sia disposta ad attribuirgli un posto. Oblio e imbarazzo è quanto viene riservato, in genere, a quella che un tempo era la tribù bianca dell’Africa.

Quello che, certamente, nessuno potrà negare è il livello di identificazione che è sussistito tra la vicenda rhodesiana e Ian Douglas Smith. Pochi politici hanno mai raggiunto il medesimo livello di rappresentatività della causa che sostenevano.

La fine dell’era di Smith chiude – e lo fa con molta dignità – un percorso cominciato novant’anni prima, quando venivano gettate da Cecil Rhodes le basi della nuova colonia. Per dirla con le parole di una canzone, se la prima parola in “Rhodesian” è Rhodes, l’ultima parola in “Rhodesian” è proprio Ian.

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