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Contro la Schilirò un processo politico, logica forcaiola e il solito doppio standard

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E i magistrati che esortavano a “resistere resistere resistere” contro le leggi di una maggioranza parlamentare a loro sgradita?

Uno degli aspetti più grotteschi di un certo modo di esercitare il potere pubblico è che esso riesce a scadere dalla parte del torto anche quando, formalmente e certo solo parzialmente, potrebbe avere ragione.

Nel caso di specie, mi riferisco all’ormai celebre caso del vicequestore aggiunto della Polizia di Stato Nunzia Alessandra Schilirò, che dopo una brillante carriera nella amministrazione della pubblica sicurezza, anche in ruoli assai delicati come quello della protezione delle donne dai reati di abuso, è finita nel tritacarne mediatico e del dibattito politico.

Si dirà: ci si è cacciata consapevolmente lei, con le sue dichiarazioni in quella manifestazione no green pass. Verissimo, e indubitabile. Infatti, a rigor di norme dell’ordinamento vigente, ritengo che il suo aver parlato sì da libera cittadina ma presentata e qualificata da terzi come dirigente della polizia di Stato, alla luce delle sue asserzioni una blanda responsabilità disciplinare la possa integrare.

Ribadisco: blanda responsabilità.

Il codice disciplinare della Polizia di Stato, e il relativo procedimento, è un framework piuttosto complesso risultante dalla natura altrettanto complessa di questa peculiare amministrazione: non più ad ordinamento militare ma comunque rincondotta in un alveo ‘civile’ assai peculiare, di impiego pubblico non privatizzato e attratto nella sfera altamente gerarchizzata della pubblica sicurezza.

Basterebbe una sia pur rapida scorsa anche alla mera elencazione delle sanzioni previste per rendersi conto di come, anche in chiave puramente semantica, il dipendente pubblico poliziotto soggiaccia a un generale canone di continenza e di condotta, anche fuori servizio, diversificato rispetto a quello del normale dipendente pubblico civile.

Naturalmente, visto che siamo in Italia e che qui da noi tutto deve rendersi teatro dell’assurdo e che alla faccia del tanto sbandierato garantismo ogni vicenda si colora delle tinte del grottesco, nessuno, dalle parti di politica e mass media maggioritari, ha posto la questione in questi termini, fatta salva qualche nobile eccezione: si è preferito dar subito corpo al peggio della logica forcaiola, con addirittura la ‘notifica’ del procedimento disciplinare a mezzo stampa, senza che la diretta interessata, la ‘incolpata’, ne sapesse nulla. Così ha dichiarato lei, scrivendolo nero su bianco in un post Facebook; va detto che non sarebbe nemmeno la prima volta in cui una amministrazione, per compiacere l’organo politico intervenuto in campo con buona pace della distinzione tra politica e amministrazione, avverta prima l’opinione pubblica rispetto alla persona che sarà chiamata a difendersi.

I dieci minuti di intervento della Schilirò, il contesto in cui il discorso è stato proposto, il fatto che sia stata presentata come appartenente alle forze dell’ordine e che a questo aspetto sia stata ricondotta una particolare importanza e la seguente intervista alla emittente digitale ByoBlu costituiscono un problema di condotta che potrebbe, al massimo, integrare gli estremi del comma 2 dell’articolo 13 del DPR 782/1985, a mente del quale gli appartenenti alla polizia di Stato anche fuori servizio devono mantenere condotta conforme alla dignità delle proprie funzioni, o al limite l’inciso finale dell’articolo 10 del DPR 62/2013, secondo cui nei rapporti tra privati, quindi extra-rapporto di servizio, il dipendente pubblico non assume comportamenti che possano nuocere alla amministrazione di appartenenza.

Il tutto sia detto sine ira et studio. Per mia formazione culturale ritengo che anche queste previsioni limitino in maniera inaccettabile l’espressione del libero pensiero, il quale dovrebbe essere assoluto, ma come usa dirsi questo è: questo è l’ordinamento e con questo, e con la relativa giurisprudenza formatacisi sopra, ci si deve confrontare.

Ma cosa ha detto la Schilirò? E le sue asserzioni, soprattutto, sono tali da integrare gli estremi delle gravi sanzioni evocate e invocate, in assenza di qualunque accertamento disciplinare, dalla massima autorità ministeriale e da una certa parte del mondo politico?

La vicequestore ha esordito parlando di una situazione di una gravità senza precedenti, in riferimento alla estensione del Green Pass. Subito dopo, in riferimento alla necessità di manifestare la contrarietà contro questo provvedimento governativo, ha evocato la figura di Gandhi per legittimare il ‘dovere sacro’ della disobbedienza civile.

Assai discutibile la parentesi su Gesù, Falcone, Borsellino, primi cristiani, primi partigiani, decisamente eccedente ed esorbitante per toni e metafore visto l’oggetto del discorso e della critica, ma comunque sono parole che oggettivamente non fanno male a nessuno, di certo non alla amministrazione di pubblica sicurezza: il Green Pass è assai criticabile, e lo può certamente criticare con i toni giusti, laddove ‘giusto’ deve essere inteso nel senso del nostro ordinamento, e non in chiave gius-filosofica, anche chi per proprio lavoro è chiamato a farne rispettare la normativa posta a fondamento, ma rimanendo in un ambito tecnico.

La Schilirò è pienamente legittimata a sostenere i suoi dubbi di costituzionalità del green pass e della sua conformità al nostro ordinamento, come fa nel video. Più problematico è il voler poi entrare nel merito tecnico-medico citando generici dati, aspetto questo che esonda del tutto da una critica tecnica.

Qualche problema, forse il vero punto nodale della vicenda, lo scorgo al minuto 8:20 del discorso, quando si rivolge alle forze dell’ordine, aspetto questo che secondo me potrebbe costarle la contestazione della violazione delle generiche norme di condotta, nulla però va detto che implichi sanzioni particolarmente gravi.

Lo dico chiaramente: ritengo le parole della Schilirò discutibili e fuori focus. Ma questo implica l’esercizio del maglio d’acciaio della disciplina di polizia, su input della politica e con richieste di sanzioni gravissime come la destituzione (ovvero, il licenziamento)?

Legittima un ministro a dire che sta “seguendo personalmente”, qualunque cosa voglia dire, la vicenda? Ad occhio, che un ministro segua personalmente una vicenda non lascia ben pensare perché sottende un livello elevatissimo di attenzione, nemmeno la Schilirò avesse fatto o detto chissà cosa. E forse la Lamorgese farebbe bene a impiegare la sua attenzione su altri versanti, lasciando le questioni di disciplina agli organi amministrativi competenti.

Non siamo più infatti nell’epoca dell’esercizio regio della giustizia, laddove la sfera latamente politica e quella amministrativo-giudiziale tendevano a confondersi tra loro.

Nulla di tutto ciò è legittimato. La libertà di espressione esiste ed è salda anche per i dipendenti pubblici soggetti a regimi ordinamentali peculiari.

Non possono perdere il loro posto di lavoro solo perché un ministro interviene nel dibattito con una grave, questa sì, anticipazione di addebito e sanzione senza che il procedimento disciplinare sia ancora aperto.

Questo è uno stravolgimento dei nostri più essenziali cardini garantistici che informano anche il procedimento disciplinare che pur strutturalmente ispirato al canone inquisitorio, e non accusatorio, poggia comunque su regole di diritto e di difesa ineludibili.

Tecnicamente, e lo ricorda anche il Consiglio di Stato con tra le varie la sentenza della III sezione n. 6150/2020, la sanzione della destituzione di un appartenente alle forze dell’ordine deve essere correlata a una violazione grave e alla denigrazione altrettanto grave della propria amministrazione di appartenenza.

Non è, appare cristallino, il caso della Schilirò che non ha denigrato la Polizia di Stato. Al massimo, in punta di diritto, le si potrebbero contestare quelle violazioni generiche e minori che prima citavo, ma nulla che sembrerebbe integrare il ‘sensazionalismo’ che si sta abbattendo sull’opinione pubblica.

A quanto trapela, e mi auguro non sia vero, addirittura si starebbe valutando di inviare una informativa alla Procura della Repubblica, per violazione dell’articolo 415 c.p., che come noto sanziona l’istigazione alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico.

Questa invero apparirebbe, se confermata, la mossa per caricare, più mediaticamente che non giuridicamente, di gravità la vicenda e per poter poi dire che si punta alla destituzione, posto che la sanzione espulsiva, disciplinata dagli articoli 7 e 8 del DPR 737/81, si accompagna assai spesso ad apprezzamenti di matrice penale e alle connesse (eventuali) condanne.

Che le parole della Schilirò possano integrare gli estremi di cui all’articolo 415 c.p., lo dico con il massimo rispetto per la magistratura che sarà eventualmente chiamata a investigare ma anche con il massimo rispetto del decoro del nostro ordinamento giuridico e giudiziario e del senso del ridicolo, è una autentica barzelletta: basta ripercorrere la giurisprudenza di Cassazione in argomento per comprendere come non sia davvero luogo a parlare di quel reato, perché non c’è stata alcuna istigazione in senso tecnico a disobbedire alle leggi, ma solo una riflessione, forse colorita e a tratti un po’ kitsch ma di certo, vivaddio, non penalmente rilevante.

Se per ‘disobbedienza’ si intende un mero riferimento a Gandhi o alla ‘disobbedienza civile’, senza che la cosa sia argomentata e strutturata come una effettiva istigazione allora dovremmo pure mandare sotto processo gli editori dei libri del povero Thoreau.

Ovviamente potremmo anche dire che mentre per la Schilirò si è subito con gran solerzia mossa l’intera macchina mediatico-amministrativa per eccepire delle responsabilità disciplinari, ci sono state asserzioni di altri dipendenti pubblici, e con ben altre funzioni e ben altro ruolo, ad esempio i magistrati milanesi nel caso del decreto Biondi con il loro famosissimo comunicato pubblico, andate esenti da qualunque genere di polemica o conseguenza giuridicamente apprezzabile.

Anche qui, come sempre, un pernicioso doppio standard morale che sembra distinguere a seconda della parte della barricata dove ci si situa e dove si milita, tracciando la immaginifica linea di un (progressismo) Giusto assoluto entro cui si può dire e fare tutto quel che aggrada, anche il ‘resistere resistere resistere’ contro provvedimenti di legge non graditi. E questo, questo sì, è davvero inaccettabile.

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