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Il crepuscolo dei Never Trumpers

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Persino quando si tratta di sparlare di Donald Trump non è frequente imbattersi in un attacco ruvido e devastante  come quello di cui si è incaricata qualche giorno fa Emerald Robinson sulle colonne virtuali di The American Spectator. Bersaglio di tanta veemenza sono i cosiddetti Never Trumpers, cioè quella folta schiera di figure pubbliche che si considerano conservatori, militano o si riconoscono nel Partito Repubblicano, ma avversano fieramente Trump e le sue politiche. La Robinson, giovane e promettente giornalista e scrittrice nonché capo-corrispondente dalla Casa Bianca per la rete Tv via cavo One America News, concentra i suoi strali polemici contro intellettuali e giornalisti ignorando completamente i politici, sui quali con ogni probabilità – e giustamente, direi – ritiene che vada fatto un discorso a parte. Una serie di eventi, esordisce l’articolo, segnalano la crisi irreversibile dei Never Trump Conservatives. Eccone alcuni:

  1. la nomina di Neil Gorsuch (e l’imminente sostituzione di un conservatore poco affidabile come Anthony Kennedy) alla Corte Suprema;
  2. le polemiche (quando non le “epurazioni”) contro gli editorialisti anti-Trump del Weekly Standard e del sito conservatore RedState;
  3. la recente scomparsa di Charles Krauthammer, l’influente neocon che fu capofila dei Trump skeptics, una variante moderata dei Mai-con-Trump.

La ciliegina sulla torta, in qualche modo, è  l’annuncio, nel marzo scorso, che il neocon Bill Kristol, direttore del Weekly Standard e figlio di Irving Kristol, considerato “il padrino del neoconservatorismo”, correrà contro il presidente alle prossime elezioni presidenziali del 2020. Forse il più sfegatato dei Never Trumpers, Bill Kristol si è reso protagonista di epiche battaglie contro i sostenitori di Trump. Forse la sua più clamorosa “crociata”, spinta fino all’insulto personale, fu quella contro Michael Anton, autore, sotto lo pseudonimo di Publius Decius Mus, di un famoso manifesto pro-Trump intitolato “The Flight 93 election” (con allusione all’aereo della United Airlines dirottato dai terroristi di Al-Qaeda l’11 settembre 2001). La sfuriata gli costò il mancato rinnovo del contratto di collaborazione con Fox News. La risposta non si fece attendere: Kristol accusò Tucker Carlson, colonna dei commentatori di quella rete tv ed ex direttore di The Daily Caller, di “etno-nationalismo” e, ovviamente, di “razzismo”.

Ma qual è il peccato capitale di Bill  Kristol? E quale misfatto avrebbero compiuto i suoi sodali e/o seguaci?  Facciamo innanzitutto qualche nome. Tra i maggiori esponenti della schiera dei Never Trumpers ricordiamo Michael Gerson,  George Will e Jennifer Rubin, che scrivono sul Washington Post,  David Brooks e Ross Douthat, del New York Times,  David French e Jonah Goldberg del National Review. Dunque, di cosa li si accusa? E’ una frase estratta dall’editoriale su Bloomberg di un altro dei loro, Ramesh Ponnuru, a spiegarlo:  “Nel 2016 ci siamo accorti che le élites dei conservatori non parlavano per gli elettori repubblicani.” Insomma, questa gente non rappresenta altro che se stessa. Segue una puntigliosa disamina di questa scollatura tra base ed élite. Forse l’argomento clou è perfino banale nella sua brutale evidenza. ‘La disconnessione maggiore è di tipo religioso e culturale,’ scrive Robinson. ‘Il partito Repubblicano è prevalentemente caucasico, cristiano e tradizionalista, mentre i suoi pundits sono  ebrei deviati, agnostici  e libertari.’  Alcuni di loro, come George Will, si spingono oltre e si dichiarano apertamente atei e orgogliosi di esserlo. Figuriamoci quanto avvertono la necessità di farsi carico della libertà religiosa che tanto sta a cuore alla base!

La contraddizione è tutta in considerazioni come questa: gli elettori conservatori vengono rimproverati perché sostengono uno come Trump, che gli intellettualoni del GOP considerano deleterio per la causa del conservatorismo, ma i critici non sono forse gli stessi che difendevano a spada tratta gli open borders e il nation-building  in paesi la cui popolazione odia l’America e ciò che rappresenta? Non sono forse gli stessi che benedicevano quelli che trattavano affari e stipulavano trattati che arricchivano chi li sottoscriveva ma eliminavano posti di lavoro americani? E tutto questo facendosi beffe implicitamente della “base” e delle sue preoccupazioni circa l’aborto, i matrimoni gay e  l’impatto dei cambiamenti demografici. La verità, incalza la giornalista, è che i Never Trumpers non si preoccupavano delle idee e dei valori del conservatorismo, ma di se stessi. Insomma, Tucker Carlson aveva perfettamente ragione quando alle reprimende dei neocon replicava a muso duro che ‘dileggiare Trump è un atto di solidarietà di classe, prova evidente che questa gente non vive nei quartieri popolari’. Ora, affonda il colpo la Robinson, come si può essere smentiti ogni giorno dai fatti, che sempre più danno ragione a Trump, e continuare ad essere un’élite ispirata? 

Insomma, se per i Never Trumpers le campane non suonano a morto, poco, ma molto poco, ci manca. Tra questi ultimi, comunque, ce n’è uno che ha capito e che nell’aprile scorso ha issato bandiera bianca: è David Brooks, che sul New York Times  ha fatto professione di umiltà ammettendo che ‘parte del problema è che l’anti-trumpismo ha la tendenza ad essere terribilmente paternalistico’, e che alla base del fallimento dei Mai-con-Trump c’è  ‘l’epico tentativo di offendere il 40 percento dei nostri concittadini presentandoli come psicologicamente inferiori’.

Come c’era da aspettarsi , dai “moribondi”  stanno arrivando le prime reazioni, anche perché a quanto pare l’articolo non è passato per niente inosservato. Ad esempio, sul National Review, Jonah Goldberg ha bollato l’analisi della Robinson come ‘carente sia dal punto di vista del rispetto dei fatti sia da quello della serietà’ e la tesi di fondo dell’articolo come ‘autocompiaciuta, fasulla e allegra’. Niente male. Bisogna vedere se i lettori (e soprattutto gli elettori) la pensano allo stesso modo. Cosa di cui, a questo punto, è più che lecito dubitare.

Un’osservazione conclusiva e forse doverosa: nulla vieta di intravedere qualche somiglianza, neppure tanto vaga, tra ciò di cui si discute  in America e quanto è dato di vedere e sperimentare al di qua dell’oceano (e soprattutto in Italia) sotto il profilo del rapporto élites-popolo. Au contraire, oserei dire.

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