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I miti alla base dell’egemonia statalista nascono nelle scuole e nelle università

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La diffidenza nei confronti dell’economia di mercato che pervade le giovani generazioni è preoccupante e pone un grosso interrogativo sulla direzione che verrà intrapresa dalla futura classe dirigente. L’economia capitalista è vista come fonte di abusi ambientali e sociali senza precedenti. E certamente la gestione della pandemia e la politica post-pandemia non stanno ponendo argine a questa tendenza, anzi la stanno alimentando. Non è una novità: all’insorgere delle grandi crisi, gli avversari del liberalismo di ogni schieramento politico sfoderano le loro armi più potenti per screditarlo. Il dato più preoccupante è che una maggioranza delle fasce d’età più giovani, in tutto l’Occidente, sia convinta che lo Stato possa risanare un’economia in tempi di crisi, e magari anche pianificarla. Eppure, lo Stato viene finanziato proprio dalla stessa economia che dovrebbe salvare. 

Le fondamenta di questa egemonia culturale statalista vanno ricercate a partire dai banchi di scuola. È nelle scuole che viene costruito il mito del “neoliberismo”, quando nella realtà, almeno in Italia, non ve n’è traccia. La strumentalizzazione della storia nei testi scolastici dimostra chiaramente il livello di guerra ideologica contro il mercato. Manuali che celebrano coloro che hanno ripudiato le logiche dell’economia libera, salvando le masse dall’avidità dei selvaggi liberisti.

La crisi del 1929 è vista da tempo immemore come il grande fallimento delle politiche irresponsabili di quel decennio. Ma leggendo diverse opere, tra cui l’analisi del Premio Nobel Milton Friedman e di Anna Schwartz “A Monetary History of the United States, 1867-1960” (1963), o il recente saggio di Lawrence Reed “Great Myths of the Great Depression”, ci si ritrova davanti ad uno scenario ben diverso. Gli errori e la contrazione monetaria da parte della Federal Reserve, e non un fallimento del mercato, hanno portato l’economia ad un crollo. Prova ne sono le affermazioni di Ben Bernanke (governatore della Fed dal 2006 al 2014) nel 2002:

“I would like to say to Milton and Anna: Regarding the Great Depression, you’re right. We did it. We’re very sorry.”

Le politiche interventiste successive al ’29 hanno aggravato la situazione complessiva, provocando una depressione. Eppure, basta sfogliare un qualsiasi manuale di storia di scuola superiore per incappare nelle lodi di Franklin D. Roosevelt e del suo massiccio programma federale che avrebbe rimesso in sesto l’economia americana negli anni Trenta. Ovviamente non importa se i dati smentiscano clamorosamente tale narrazione: nel 1938, la disoccupazione si aggirava ancora attorno al 20 per cento. Il New Deal ha dunque peggiorato le condizioni del Paese e dato inizio ad un cambio di rotta di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. A tal proposito è illuminante un passaggio del diario privato dell’allora segretario al Tesoro Henry Morgenthau jr.: 

“We have tried spending money. We are spending more than we have ever spent before and it does not work…”

Va però precisato che il lungo corso statalista era già stato inaugurato dal Repubblicano Hoover, predecessore di FDR. Ironia della sorte, Hoover è ricordato come il presidente che ha “lasciato fare al mercato”; un po’ curioso per colui che firmò lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930.

Una cosa è certa: sfogliando le pagine dei testi scolastici, non troveremo traccia della coppia presidenziale Harding-Coolidge, che portò alla prosperità gli Stati Uniti per un decennio e che riuscì a risolvere, proprio con misure liberiste, la dimenticata e brevissima crisi del 1920-21.

Vittima della stessa egemonia culturale è anche il crash del 2008. Tutti ad incolpare il “turbo capitalismo” finanziario, senza rendersi conto che circa il 76 per cento dei subprime mortgages si trovava sui quaderni delle agenzie regolatrici di Washington. A riportarlo è Peter Wallison nel suo  “Hidden in Plain Sight: What Really Caused the World’s Worst Financial Crisis and Why It Could Happen Again” (2015). Nessuno ricorda nemmeno che Fannie Mae e Freddie Mac erano giganti immobiliari perennemente foraggiati da denaro pubblico, tramite programmi come l’HUD (Housing and Urban Development) e il CRA (Community Reinvestment Act).

Per disintossicare la letteratura economica da una narrazione fuorviante è servita la lucida analisi di Thomas Sowell in “The Housing Boom and Bust” (2010). Lungi dall’essere stata provocata da un liberismo inesistente, la crisi del 2008 è il risultato del diffusissimo crony Capitalism, l’incestuosa collusione fra enti governativi e importanti corporations: 

“Government was not passively inefficient. It was actively zealous in promoting risky mortgage lending practices”

Se a livello scolastico e universitario si inculca l’idea che serve “più Stato”, sarà difficile poi per gli ex studenti comprendere i danni collaterali dell’intervento pubblico di ieri e di oggi, e abbracciare i benefici, visibili e invisibili, di un’economia il più possibile libera.

Un’inversione di tendenza è quindi più che mai necessaria, se non vogliamo che siano proprio le giovani generazioni a richiedere la continuazione di politiche storicamente fallimentari. Spetta a noi alimentare a piccoli passi questa svolta liberale che stenta ad arrivare. E forse bisognerà attendere tempi migliori; del resto è ciò che ha fatto il Premio Nobel Friedrich Von Hayek che nel 1978, dopo una vita passata a difendere le proprie idee dal primato keynesiano, affermava:  

“Quand’ero giovane, soltanto i vecchi credevano nel libero mercato; quand’ero un uomo di mezza età, ero praticamente il solo a crederci; e ora ho il piacere di aver vissuto tanto a lungo da vedere che i giovani cominciano a credere nel libero mercato. È un cambiamento epocale”.

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