Cultura

Il fallimento della scuola: il rispetto non esiste senza regole

L’istruzione ormai è residuale. Un errore parcellizzare il rispetto in tanti “rispetti” specifici. Dovremmo educare al rispetto non “di” genere, ma “in genere”

scuola ambientalisti

I sempre più frequenti episodi di bullismo, cyberbullismo, vandalismi più o meno nascosti da ideologie estremiste o fede calcistica (e già il termine “fede” applicato al gioco del pallone fa orrore…) sono tutti figli (indesiderati) del nostro tempo e tutti accomunati da un triste comune denominatore di carenza educativa.

Le tante contromisure ipotizzate nelle noiose concioni degli addetti ai lavori, basate sulla comprensione a prescindere e sulla minimizzazione di fatti che costituiscono reato, si sono miseramente dimostrate inefficaci. Siamo giunti al punto che bisogna avere più paura di certi giovanissimi fulminati, che abbondano nelle nostre città (e non solo in quelle), che dei veri delinquenti adulti. La colpa di tanta inciviltà non è certamente estranea a famiglia e scuola. Oggi parliamo della scuola, della famiglia ne parleremo un’altra volta.

Il fallimento della scuola

Partiamo dicendola chiara: la nostra scuola ha fallito, ormai da anni, nel suo primo compito (quello d’istruire e formare alla vita i giovani), ma non lo ammette e s’avvita vorticosamente su se stessa, per non vedere la realtà, limitandosi a moltiplicare multiformi iniziative di carattere “sociale” (quando non smaccatamente comunista) evitando di dedicare programmi e risorse per ridare centralità allo studio. Sempre più si sprecano danaro pubblico e risorse umane per emerite cazzate che con la scuola non c’entrano nulla. Chiedete a chiunque abbia figli in età scolare.

Certo, vogliono dare alla scuola un’immagine “moderna”, nella quale si specchiano però i soli docenti, per buona parte rivoltosi mancati o falliti orfani di un Sessantotto di cui furono protagonisti, se mai vi siano riusciti, i loro padri.

Il ’68, quello vero

Ve lo racconto io il Sessantotto, perché c’ero e frequentavo il liceo in una grande e piuttosto turbolenta città. Vi posso assicurare che, a parte la minoranza dei ragazzi già politicizzati (a sinistra o destra che fosse), la stragrande maggioranza degli studenti di allora non s’era proprio accorta di vivere il mitico Sessantotto.

Si pensava a studiare e, giustamente, anche a divertirsi. Di tanta rivoluzione epocale se ne sentì parlare, anche troppo, soltanto anni dopo. Finita, comunque, l’epoca dei parka, degli eskimo e delle bandane sui lunghi capelli poco lavati, veri attentati alla fornicazione automobilistica serale, i post-rivoluzionari di oggi, quelli che pateticamente okkupano scuole e facoltà universitarie, lo fanno per  annoiata ed annoiante conformità di ruolo. Siamo studenti? Ebbene, si okkupi; così, a cazzo. Sennò che studenti saremmo?

Il rito della contestazione

A nulla serve fare loro notare che ormai si distribuiscono diplomi e lauree a pioggia (persino in comode lezioni a distanza) nei più impensabili (talvolta comici già nel nome) corsi di laurea. Una laurea per tutti non basta. Ma un po’ li compiango: non possono più fare la guerra ai loro professori, perché questi ultimi sono più a sinistra di loro e più desiderosi di loro di fare casino “contro il sistema“.

Che, poi, in cosa esattamente consti questo feroce “sistema” non lo sanno dire in modo accettabile, ma se dicono di essere in lotta, sarà certamente per giustissime cause. L’importante è contestare qualcosa o qualcuno, possibilmente nei modi e negli orari più comodi, in osservanza del più prosaico stile sindacale, con gli scioperi da farsi rigorosamente di lunedì o di venerdì. In estate c’è il mare e in inverno lo sci, non scherziamo. Pausa pranzo, comunque, sempre assicurata: si riprende ad urlare dopo essersi adeguatamente rifocillati. Fin qui, è semplice folklore, del quale sorridere.

Il rispetto parcellizzato

Altra, ben più importante, questione è quella del ruolo educativo della scuola. Ci vorrebbero forse importanti e costose riforme scolastiche e chissà quali misure speciali per educare al rispetto del prossimo i nostri ragazzi? No, di certo. Basterebbero ampiamente famiglia e la scuola, ma non certo quelle di oggi. Certamente sarebbe più che sufficiente educare al rispetto in genere, quello da tributare a chiunque non lo neghi a noi.

E invece no: abbiamo sentito l’esigenza di parcellizzare il rispetto in tanti “rispetti” specifici, e oggi spaziamo da quello per le più articolate preferenze sessuali a quello per le abitudini alimentari dei singoli, per non parlare di quello per il nostro Pianeta, che assai probabilmente farebbe volentieri a meno dell’interessamento di tanti appassionati gretini e di certe ricette salvifiche biascicate come la poesiola della recita di Natale.

Il timore è che a scuola non s’insegni più che il rispetto non esiste senza regole e che senza di queste non esiste la società civile. Se si riuscisse ad inculcare in certe teste balorde che ai diritti si contrappongono i doveri e che questi ultimi non consistono nell’ineluttabilità di certe “missioni” delle quali si sentono titolari senza alcuna ragione, forse, solo allora si potrebbe insegnare a rispettare chi non la pensi come loro.

Finché si lascerà credere ai millennials e seguenti che chi è nato prima di loro è un imbecille ed ha torto per motivi anagrafici, non caveremo un ragno dal buco. Lo deve fare la scuola, in primis, anche se, dopo anni di sottomissione, adesso è tardi per ridare agli insegnanti un ruolo sovraordinato a quello dei loro discenti. A scuola comandino gli insegnanti, piaccia o meno. Ma si diano una bella calmata anche tanti genitori. Insegnino ai loro figli a rispettare gli insegnanti, e lo facciano loro stessi, anche quando da questi apprendano di non aver generato un fenomeno assoluto. I professori non devono aver paura di genitori scalmanati, ma siamo impazziti?

Basta somari

In una scuola nella quale, per essere bocciati, bisogna quanto meno aver sparato alla professoressa, l’istruzione, e parlo di quella derivata dallo studio delle materie che si sono  liberamente scelte, si spera consapevolmente, è ormai una parte residuale e non essenziale del tempo passato tra i banchi. Questo il vero punto dolente. Sempre più cose si fanno a scuola in alternativa allo studio.

Basta raccontarci balle e basta mettere la testa sotto la sabbia: questo sistema scolastico non fornisce più una solida base per la vita civile e la dimostrazione di quanto affermo è sotto gli occhi di tutti. Solo io conosco professionisti che non sanno parlare in italiano, tecnici con grosse lacune proprio nelle discipline che dovrebbero aver studiato a fondo? Chi li ha diplomati o laureati?

Ma chi se ne frega se l’ex studente di medicina che mi mette le mani addosso al Pronto Soccorso abbia o meno manifestato da studente per questa o quella nobile causa: mi basta che metta in pratica l’insegnamento tecnico ricevuto, al quale si aggiunga, semmai, una corretta deontologia professionale.

Di come la pensi sul governo o su certe guerre non m’importa un fico secco. Lo stesso vale per avvocati, ingegneri e per gli stessi insegnanti. Che siano preparati. È troppo chiederlo proprio alla scuola? Se vi sono degli impenitenti somari, li si boccino, prima a scuola, poi all’università ed infine ai concorsi pubblici. Basta somari! Scrivete questo sui vostri cartelli del piffero esibiti nelle piazze!

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