Cultura

Kodak, storia di un mito/4: la morte con il digitale. Ma non è escluso il ritorno

Il dominio Kodak, il boom del digitale e il declino progressivo della pellicola fotografica. Libri in tribunale e difficile riscatto, ma resta una nicchia di estimatori…

Kodak

Dalla morte del suo fondatore George Eastman, nel 1932, fino alla soglia degli anni Duemila, la Kodak continuò a crescere costantemente, in pratica, monopolizzando il settore della fotografia e della cinematografia a colori in tutto il mondo per molti decenni, pur dovendo competere con altri colossi come la tedesca Agfa Gevaert e, per quanto riguarda la produzione di fotocamere e cinecamere, le giapponesi Canon, Nikon, Fuji, per citarne soltanto alcune tra le più grandi e diffuse nel mondo.

In una certa misura, Kodak è sempre rimasta Kodak, con una particolare predilezione per quelle produzioni industriali di pellicole particolari, come quelle per diapositive a colori che hanno segnato un’epoca e sono state un prodotto di riferimento.

La dirigenza del gigante giallo, che non ha visto al suo vertice altri componenti della famiglia Eastman, ha occupato la preponderante fetta di mercato fino alla fine degli anni Ottanta, dettando legge in materia di pellicole, mentre la produzione di apparecchi di ripresa si riduceva gradualmente, soprattutto nel settore consumer, quando, nell’ultimo ventennio del XX secolo, le tecnologie di ripresa digitale appena muovevano i primi passi e suscitavano la curiosità degli appassionati più giovani, già orientati verso il mondo dei computer.

Il digitale e il declino della pellicola

Iniziava, del tutto incolpevole la Kodak, il declino progressivo della pellicola fotografica. Con la crescente e capillare diffusione dei personal computer, espressione perfetta della logica binaria e massima applicazione dell’informatica, si rivoluzionava tutto dalle basi: l’apparecchio fotografico non avrebbe più convogliato la luce della scena ripresa al piano focale sul quale stava la pellicola vergine da impressionare, ma, bensì, verso un sensore ottico elettronico, il CCD, che avrebbe “ricomposto” elettronicamente l’immagine ripresa.

Non vi sarebbe più stata la pellicola a richiedere di essere sviluppata per poi stamparla su carta o in diapositiva, e lo stesso progresso riguardava anche la pellicola positiva cinematografica. Come in una rivoluzione copernicana, la stessa fotografia stampata non era più il prodotto finale dell’azione fotografica, ma un semplice sovrappiù: ora le fotografie si potevano vedere, e pure subito, sullo schermo del computer. Stamparle non sarebbe più stato necessario per apprezzarne i contenuti.

Tale straordinaria innovazione tecnologica fece tremare l’impero di una multinazionale con un fatturato di 16 miliardi di dollari e 145.000 dipendenti nel mondo. Per dirla con Humphrey Bogart: “È l’innovazione, bellezza, e tu non puoi farci niente!”

L’arrivo di Steve Sasson

Ma fu, quello, l’inizio della fine per la Kodak, fino al momento topico in cui nella storia entra un altro personaggio: un certo ingegnere Steve Sasson. Tecnico ricercatore presso la Kodak, Sasson, già nel 1973 ricevette l’incarico di studiare se si potesse modificare una telecamera a colori, che in quegli anni si stavano diffondendo nelle televisioni di tutto il mondo, per farne una fotocamera elettronica.

Ai dirigenti Kodak, l’idea parve buona, almeno nelle sue grandi linee, e sicuramente quantomeno ritennero doveroso affrontare il problema afferrando il toro per le corna: se la pellicola fotografica non fosse più stata indispensabile in un prossimo futuro, la Kodak, che principalmente da quella traeva la massima parte dei suoi utili, sarebbe stata spacciata. Sasson ebbe, almeno inizialmente, carta bianca per la fase di progettazione e studio della macchina fotografica elettronica e, seppure tra molte difficoltà legate, in principal modo, alle dimensioni ed al peso dei prototipi, vi lavorò alacremente.

Ma, ancora una volta, gli scettici ebbero il loro determinante ruolo e, stavolta, non erano agenti esterni all’azienda, ma proprio alcuni tra i suoi più influenti rappresentanti, i quali non vedevano di buon occhio un possibile pensionamento definitivo di quei rullini di nitrocellulosa che avevano fatto della loro azienda una delle principali al mondo.

Dei primi esperimenti top secret sulle macchine fotografiche elettroniche non sappiamo molto, ma sta di fatto che non ne uscì una sola sul mercato finché basata sui transistor e dotata di registrazione su cassetta magnetica. Mancava ancora un tassello, ma la svolta era dietro l’angolo. Quella e solo quella avrebbe dato il via libera alla vera rivoluzione: una macchina fotografica non più soltanto elettronica, ma basata sulla logica digitale.

Il colpo di Sony

I motivi esatti per cui Steve Sasson lasciò la Eastman Kodak per passare alla giapponese Sony li conoscerà certo lui meglio di noi, ma è storia che la prima macchina fotografica digitale fu una sua creatura e venne lanciata sul mercato dal gigante dell’elettronica giapponese nel 1981, inferendo un colpo mortale alla casa di Rochester.

Cosa era successo? La veloce trasformazione tecnologica dell’elettronica analogica (quella, per intenderci, basata sui transistor) a favore dell’elettronica digitale (che impiega circuiti integrati di dimensioni piccolissime) permetteva finalmente di coniugare la nuovissima tecnologia con ingombri accettabili e, soprattutto, permettendo la registrazione dei fotogrammi scattati su memoria solida, potendo fare a meno dei macchinosi ed ingombranti registratori a nastro magnetico.

Il grande balzo era ormai compiuto e moltissimi, tanto operatori del settore che consumatori, recitarono il de profundis alla pellicola fotografica tradizionale, mandando in soffitta le fotocamere a rullino.

Anni drammatici

Furono anni drammatici per un colosso che aveva puntato tutto sul supporto fotografico tradizionale ed il resto lo fece il dinamico settore dell’elettronica consumer giapponese, sempre il primo a rendere disponibile sul mercato le ultime soluzioni tecniche del momento. Sebbene i fotografi professionisti, sulle prime, non furono entusiasti della qualità (invero, bassina) delle prime foto scattate in digitale, la strada era ormai tracciata e non vi fu chi non apprezzò l’abolizione di tutto l’armamentario del processo di sviluppo e stampa tradizionale, basato sull’impiego di ingranditori ottici, liquidi rivelatori e carta fotografica.

Tutto quanto si era evoluto per oltre un secolo, sembrò crollare in pochi mesi e, probabilmente, questo fu l’errore di sottovalutazione che condusse la Eastman Kodak a portare i libri in tribunale. Le macchine fotografiche digitali presero il posto di quelle tradizionali anche in mano ai migliori professionisti al mondo.

Era il 2012 e la straordinaria creatura industriale di George Eastman aveva accumulato, nei primi anni 2000, oltre 7 miliardi di dollari di debiti, nonostante il taglio di oltre 47mila dipendenti. Venne dichiara ufficialmente fallita. Ad oggi il marchio Kodak resiste nel solo settore delle stampanti digitali, in una sorta di crudele contrappasso per chi aveva inventato quasi tutto nella fotografia.

Non è escluso il ritorno

Si tornerà, prima o poi, alle macchine fotografiche tradizionali? Probabilmente sì, anche se è possibile collocarne la richiesta nella sfera di appassionati di nicchia, di estimatori di quel capolavoro di meccanica di precisione costituito da una fotocamera in metallo, dotata di un obiettivo ottico di lavorazione finissima e di quell’impronta particolare che l’occhio attento dell’esperto ancora trova in una fotografia tradizionale.

Se non interverranno altre scoperte tecnologiche oggi impensabili, in questo mondo dove la velocità è tutto e nel quale si cerca di eliminare ogni tipo di complicazione per l’utente finale, la fotografia digitale rimarrà lo standard e, semmai, quella di Kodak un lussuoso sfizio per estimatori un po’ âgé. Ma, mai dire mai…

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