Cultura

L’assurda guerra alle università private e online

Ecco come i parrucconi degli atenei pubblici (e di quelli privati integrati nel sistema) difendono i loro privilegi e il fortilizio ideologico progressista

La protesta degli studenti in tenda contro il caro affitti all'Università

La guerra che gli apparati universitari di Stato hanno dichiarato alle università telematiche è ormai un dato di fatto. In queste ore non soltanto il rettore dell’università di Bologna, Giovanni Molari, ha fatto dichiarazioni assurde in merito al fatto che tutti gli atenei telematici dovrebbero scomparire, ma addirittura c’è il rischio che non venga approvato un emendamento della Lega che chiede di rinviare di un anno una serie di misure penalizzanti a danno dei nuovi atenei.

Quale è la posta in gioco? È molto semplice. Da un lato abbiamo i difensori del vecchio monopolio di Stato: i parrucconi degli atenei pubblici (e di quelli privati totalmente integrati nel sistema), che si battono a difesa dei loro privilegi e difendono il fortilizio ideologico progressista delle università pubbliche; dall’altro c’è un mondo nuovo e composito di realtà per lo più private, che stanno sforzandosi di rispondere alle esigenze del pubblico.

Introdotte grazie a una delle riforme della Gelmini, le università telematiche hanno avuto un successo formidabile. Il motivo è semplice: ci sono moltissimi italiani che intendono studiare e hanno bisogno di un titolo di studio universitario, ma non possono trovare risposta negli atenei pubblici. Quando ero giovane, quanto meno gli atenei di Stato costringevano alcuni docenti a tenere corsi serali per i lavoratori. Ora non c’è più quasi nulla di tutto ciò. La sinistra ZTL disprezza i poveri e chi vuole studiare anche se deve lavorare per vivere.

Gli studenti delle telematiche sono per lo più lavoratori e del Mezzogiorno. Vivono in piccoli centri lontani dalle città universitarie e non possono né mantenere i loro studi, né affittare una camera lontano da casa. Questo ai conservatori del peggio e all’associazione dei rettori delle università in presenza non interessa: a loro preme soltanto che non vi sia alcuna competizione e che l’egemonia ideologica gramsciana non venga messa in discussione.

Non a caso nei mesi scorsi l’università di Padova ha deciso che i suoi docenti non possono insegnare nelle tematiche: possono insegnare a Venezia oppure a Ferrara, alla Bocconi o alla Luiss, ma non in una università on line. Perché? In quanto temono che il loro giocattolo, che vive di sussidi pubblici e oligopoli garantiti, venga distrutto dalle scelte degli studenti-consumatori.

Non solo. La CRUI, l’associazione dei rettori, ha modificato il proprio statuto così da impedire ai rettori delle università on line di farne parte. È diventata a pieno titolo la lobby dei difensori dell’esistente: al punto che la presidente della CRUI, Giovanna Iannantuoni, intervistata dal Corriere della Sera nelle scorse ore ha parlato della crescente presenza delle università on line in Italia (che laureano più del 10 per cento degli studenti) non già come un’eccellenza, ma come un’anomalia. Il fatto che l’Italia sia più simile agli Stati Uniti che alla Francia, per gli statalisti ovviamente è un problema.

I burocrati di Stato vogliono spazzare via per decreto legge un intero settore: una serie di imprese che offrono alta istruzione senza chiedere un centesimo allo Stato (poiché vivono delle rette pagate dalle famiglie) e che danno da lavorare a migliaia di persone.

Il valore legale del titolo di studio

La questione di fondo, ovviamente, è il valore legale del titolo di studio: che andrebbe abolito. Tutto il castello dei privilegi su cui si regge il sistema universitario italiano crollerebbe se ogni ateneo valesse per quello che è: per la qualità della formazione che offre. Lo diceva già Luigi Einaudi molti decenni fa: ora tutti celebrano il primo presidente, nella ricorrenza del 150mo della nascita, ma pochi sembrano averlo letto.

Se destra e sinistra volessero davvero ricordarlo, con i fatti e non con le parole, dovrebbero aprire il mondo universitario alla concorrenza e – per raggiungere tale obiettivo – dovrebbero smontare un apparato burocratico basato sul pezzo di carta, e quindi sugli accreditamenti, i finanziamenti di Stato, i controlli pubblici (Anvur), e via dicendo.

L’università sarà migliore quando diverrà uno spazio di libertà per le imprese, gli studenti e i docenti: esattamente ciò che la sinistra e quanti nel centrodestra ne condividono le idee non vogliono assolutamente.

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