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Dimmi che mascherina porti e ti dirò chi sei: da dispotivo di protezione ad accessorio di moda che racconta un’epoca

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Dimmi che mascherina porti e ti dirò chi sei. Dalla anodina semplicità di quelle chirurgiche alle sinuose linee di quelle griffate e più aderenti al viso, il vero oggetto che racconta quest’epoca pandemicamente corretta sono le mascherine. Anzi, che dico, nemmeno più potremmo parlare di semplice oggetto, bensì di naturale complemento fisionomico, come un paio di baffi o un particolare taglio di capelli. La mascherina parla di noi, con quel linguaggio del malcelato lieve movimento delle labbra che avevamo quasi scordato. Perlomeno, parlandoci con la mascherina indossata ci guardiamo in faccia. Giorni fa mi è capitato di riconoscere un amico, celato da una arcigna KN95 a becco, per il colore dei suoi occhi, e me ne sono compiaciuto, riconoscendomi la persistente capacità di far caso ai minimi particolari, anche a distanza di anni, perché da tanto non incontravo quell’amico.

Se volessimo apporre un’etichetta a quest(i) ann(i) non avremmo dubbi: stiamo vivendo l’epoca della mascherina. Ci stiamo persino accorgendo, portandola, quanto sia preziosa l’aria che respiriamo, intesa come la piccola percentuale del prezioso ossigeno nella prevalenza di azoto ed anidride carbonica che ci tengono in vita. Stiamo persino diventando bravini ad indovinare l’espressione facciale dei nostri interlocutori posti a distanza metrica mentre parliamo con essi. Dalle lievi pieghe della mascherina possiamo presumere un sorriso compiacente ed amichevole piuttosto che la disapprovazione facciale derivante da qualcosa di fastidioso che abbia oltrepassato il nostro fazzolettino di tessuto-non-tessuto e provochi reazioni negative in loro. Addirittura possiamo affermare che il principio egualitario delle uniformi incontra la solita eccezione: anche se tutti noi portiamo la mascherina, ce ne sono di più belle e più brutte, siccome esistono quelle da ricchi e quelle da poveracci. Si conferma dunque la parziale inefficacia sociale delle uniformi (che siano esse militari, forensi, sanitarie non cambia) che vorrebbero ricoprire le diverse qualità dell’abbigliamento sottostante. Così come i gradi e i nastrini delle medaglie distinguono il militare “in gamba” dal marmittone e come il colore dei cordoni della toga degli avvocati distingue il semplice avvocato da quello abilitato al patrocinio davanti alle magistrature superiori, anche le mascherine, in linea di massima, dicono subito al nostro interlocutore metrico se stanno parlando con uno sfigato qualsiasi o con qualcuno che conti qualcosa.

Semmai, la differenza con gli orpelli del grado militare e la piacevolezza estetica della mascherina è solo una: nel caso dei gradi e nastrini vari, averli dovrebbe essere conseguenza di qualche abilità personale, mentre la scelta tra diversi dispositivi di protezione individuale è, inutile nasconderlo, questione di capacità economica, ma questo lo si riscontra anche negli abiti e persino nelle auto. L’esteriorità conta, per quanto si consideri lodevole affermare il contrario, e persino una persona colta ed equilibrata come mio padre soleva dirmi: “Ricordati che l’abito non fa soltanto il monaco, ma pure l’intero convento”, sia pure dicendolo egli in tono scherzoso, e devo ora ammettere che non aveva tutti i torti.

Non avendo la minima intenzione di aggiungere confusione alla già troppa che regna in materia di utilità delle mascherine di un dato tipo o di un altro e per quanto mi stupisca su quanto marginale ed incompleto rimanga il dibattito scientifico a proposito di quelle “egoiste” o “altruiste”, ossia su quelle che proteggerebbero noi e quelle a tutela del prossimo, mi limiterò a considerare alcuni aspetti interessanti legati alle ormai indispensabili pezzuole che ci permettono persino di stabilire immediatamente se una foto o un filmato siano o meno precedenti al 2020. Siamo, assai probabilmente, alle prese con il più clamoroso e raro esempio di fenomeno trasversale che la storia ricordi, perché, forse per la prima volta in termini globali, in qualunque parte del nostro pianeta i popoli indossano oggi qualcosa di uguale per tutti, come fosse un segno distintivo del genere umano, l’unico segno che testimonia in modo incontrovertibile l’accomunarsi dei popoli nell’istinto di conservazione.

Questa, lo ripeto, non è affatto una guerra e sarebbe errato e controproducente adottare regole tattiche e strategiche tipiche dei conflitti. È molto più e molto peggio di una guerra e persino le nude cifre stanno iniziando a dimostrarlo. Per quanto chi scrive non sia mai stato un fervente assertore dell’odierno e diffuso desiderio di ecumenismo, quella del “siamo tutti nella stessa barca” , frase noiosa, retorica e molto spesso detta in malafede, è un concetto abbastanza esatto. Non si può negare che quella mascherina sul viso di (quasi) tutti gli abitanti di ogni continente, in ogni sua più remota ed esigua agglomerazione sociale, dice moltissimo dello strapotere della forza della natura, alla faccia della nostra miope presunzione di poterla controllare. Ci confrontiamo oggi in una sfida epocale che dovrebbe, quantomeno, insegnarci a godere delle piccole ed immense cose della vita quotidiana, che per troppo tempo abbiamo sminuito e poste su un piano subordinato a quello occupato dal nostro ritenerci dei fenomeni unici artefici del proprio destino. Le tranquille cose “normali” sembravano destinate a gente di poco conto, mentre “l’uomo di oggi” doveva fare cose eclatanti, a pena di esclusione sociale.

Si è forse trattato di una vendetta della natura? Penso proprio di no, anzi, sarà proprio la natura, della quale facciamo parte pure noi singoli, a portarci fuori anche da questa calamità, prima o poi. Semmai, la vera questione sarà come sopravvivere ad ogni avversità improvvisa che non si sia in grado di affrontare con piani organici dal valore salvifico. Quando piove ci si protegge con l’ombrello o con un cappello più che restare ad inzupparci in attesa di poter governare i fenomeni atmosferici a nostro piacimento. Limitatezza di vedute? Mancanza di visone globale? Può darsi, non lo nego, ma intanto apriamolo questo benedetto ombrello quando piove. Con buona pace del generale La Palice potremmo dire che l’unica dimostrazione scientificamente accettabile, sempre a proposito di mascherine, è che possono essere mortali per chi non le indossa e per chi sta nei suoi pressi. Chi lo avrebbe mai detto che la sopravvivenza dell’homo evolutus del terzo millennio sarebbe stata subordinata a un pezzettino si stoffa sorretto da elastici da mutande? Chi avrebbe mai potuto preconizzare che per stare assieme (vivi) bisogna stare distanziati? Viviamo l’epoca delle contraddizioni in termini, del tutto e del contrario di tutto.

Ne escono, comunque, sconfitti gli orchestrali della banda dei tromboni multimediali, questo sì. Grazie all’estrema facilità di dire la propria al mondo, in tale banda sto talvolta suonando anche io la mia trombetta, nonostante schiere di tromboni assai più autorevoli e sempre intonatissimi possano giudicarla un po’ calante. A proposito di ottoni, me la permettete una scemenza finale? Sapete quanto “spray” si emette suonando uno strumento a fiato? No? Chiedetelo a chi ne suoni uno. Oddio, ma allora un’orchestra o una banda è un tremendo veicolo di contagio! Chiudiamola qui, con un sorriso da dietro la mascherina, che, se non ammazza il virus, non fa di certo male, soprattutto di questi tempi.

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