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Dopo il dietrofront in Libia e il protagonismo turco, per Macron arriva lo smacco in Mali

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L’estate non ha portato fortuna al presidente francese Emmanuel Macron. Dopo l’imbarazzante dietrofront in Libia con tanto di negazione di avere mai sostenuto il leader cirenaico Khalifa Haftar, il colpo di stato in Mali ha ulteriormente mandato alle ortiche i progetti franco-africani del leader dell’Eliseo, cui non è restata che una pur significativa passeggiata nel porto di Beirut distrutto, accanto al suo ministro degli esteri Jean-Yves Le Drian.

La crisi di Bamako è – purtroppo per i francesi – figlia anche dell’instabilità sul fronte libico, dove la Turchia di Erdogan ha messo solide basi (navali) anche per il futuro. Il confronto tra Macron e il presidente turco sta prendendo una piega a tutto campo anche nel Mediterraneo orientale, con i francesi schierati a difesa della Grecia di fronte alle rivendicazioni di una Turchia sempre più intraprendente nella geopolitica marittima.

Ma il vero smacco Macron lo ha subito in Mali, dove il colpo di stato dell’esercito ha disarcionato dal potere Ibrahim Boubacar Keita, referente francese nel Paese del Sahel dal 2013. La Francia ha sempre seguito con attenzione le vicende politiche di Bamako e di tutta l’area, vista come altamente instabile soprattutto a nord della capitale, dove i ribelli Tuareg e gli islamisti costituiscono un fronte separatista che approfitta anche delle nuove rotte del poroso confine algerino per rifornirsi di armi e attrezzature da combattimento provenienti dalla Libia. Controllare l’ex colonia maliana è fondamentale per Parigi non solo per tutelare i suoi interessi economici e strategici nell’area, ma anche e soprattutto per contenere il salafismo che ha già prodotto diversi attentati sanguinari sul suolo francese.

Assimi Goita, il capo della giunta militare auto-definitasi Comitato Nazionale per la Salvezza del Popolo, ha confermato gli impegni del Mali nella lotta al terrorismo, promesso elezioni al più presto possibile e definito “fondamentale” la presenza dei militari francesi e della missione multinazionale dell’Onu nel territorio. In Mali è presente, tra l’altro, anche un piccolo contingente italiano (200 militari della Missione Takuba, deliberata dalle Camere lo scorso mese di luglio). Le Nazioni Unite a loro volta sono state convocate d’urgenza il giorno dopo il golpe per condannare la sospensione della democrazia a Bamako e chiedere il ripristino della legalità costituzionale. Sulla stessa linea si sono espresse l’Unione europea e quella Africana, che ha sospeso la partecipazione del Paese alle sue attività.

L’armée è presente nel Mali sin dal 2013 con l’Opération Serval, autorizzata dall’Onu e finalizzata al contenimento delle milizie islamiche operanti nel nord del Paese e dirette a spron battuto verso Bamako. Dal 2015 la Francia ha ampliato il suo impegno a tutti i 5 Paesi del Sahel con l’Opération Barkhane schierando oltre 5 mila uomini tra Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad per contenere l’estremismo islamico e presidiare le attività delle imprese francesi.

Keita e alcune figure di rilievo del governo maliano – come il premier Cissé – sono detenute a Kali a una quindicina di chilometri dalla capitale. Macron ha chiesto l’immediato rilascio dei detenuti, mentre una missione umanitaria dell’Onu è andata a fare loro visita ottenendo la liberazione del ministro delle finanze e del segretario del presidente.

Il rischio che in Mali si instauri un governo per nulla amico dell’Occidente e della Francia è tutt’altro che remoto. Anche se Goita è stato addestrato dagli eserciti francese, tedesco e americano e ha preso parte come capo delle forze speciali all’operazione del Radisson Hotel attaccato dalle milizie islamiche nel 2015, sembra che la frastagliata opposizione al regime tutt’altro che virtuoso di Keita sia capeggiata dal popolare imam Mahmoud Dicko, che già nello scorso mese di giugno ha arringato una folla immensa scesa in piazza nelle principali città maliane per chiedere le dimissioni del “corrotto” Keita.

Dicko, 66 anni, è una figura nota nella politica del Mali. Nel 2019 i suoi comizi avevano costretto alle dimissioni il premier Boubeye Maiga. Da quel momento l’imam è stato il punto di riferimento dell’opposizione al governo che ha poi preso il nome di M5, Movimento 5 Giugno. Più vicino alle tendenze marabuttiche dell’Islam dell’Africa occidentale che non al wahhabismo nonostante il suo imprinting filo-saudita, Dicko aveva prima definito “benedetta” la presenza del contingente militare francese in Mali, per poi parlare di tentativo della Francia di “ricolonizzare il Mali”. Nel 2015 affermò che gli attacchi islamici al Radisson Hotel furono una “giusta punizione per il popolo maliano per avere importato l’omosessualità dall’Occidente”. Questo personaggio è considerato dalle Cancellerie occidentali un attore fondamentale nella politica maliana. Solo che non vorrebbero trovarsi a trattare con lui a livello di pari grado, in caso di sua elezione a capo dello Stato. Per ora Dicko non ha manifestato simili ambizioni. E forse proprio per questo alberga in lui la speranza, un giorno, di diventare presidente. Macron prenda nota.

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