Al Parlamento il 19 giugno scorso fu taciuta un’informazione fondamentale: che il testo del nuovo MES era stato chiuso il 13 e la “logica di pacchetto” era già saltata. Il punto non è quello che sapevano le Camere e i leader di maggioranza, ma quello che sapeva il premier quando ha approvato l’accordo
Nonostante quasi un’ora di intervento alla Camera e altrettanto al Senato, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte non ha risposto alla contestazione principale che gli viene mossa, né è riuscito a rimettere insieme i brandelli cui si è ridotta la sua maggioranza sulla riforma del MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità. Anzi, probabilmente le sue arrampicate sugli specchi ne hanno approfondito le divisioni, i sospetti, la sfiducia.
L’equivoco di fondo, che suona come una vera e propria beffa, è la confusione che il premier deliberatamente alimenta (ma non è il solo) tra firma e approvazione. Sulla base del solo fatto di non aver ancora firmato nulla, Conte rivendica di aver rispettato la legge 234 del 2012 e il mandato del Parlamento. Ma è ormai appurato che il testo è chiuso, inemendabile, come ha detto il ministro dell’economia Gualtieri in audizione la scorsa settimana. E fu approvato, come ha raccontato l’ex ministro Tria, all’Eurogruppo del 13 giugno scorso, dunque ancor prima che il Parlamento potesse esprimersi con la risoluzione del 19 giugno a seguito delle comunicazioni del presidente del Consiglio.
Per quanto ieri Conte si sia sforzato di sostenere che il Parlamento è stato “sempre, costantemente e puntualmente aggiornato”, e che il negoziato è stato condotto al meglio, riuscendo a scongiurare l’automatismo della ristrutturazione del debito in caso di richiesta di aiuto, resta il fatto che l’accordo politico fu raggiunto all’Eurogruppo del 13 giugno, in assenza di un atto di indirizzo da parte delle Camere, e approvato dai capi di stato e di governo all’Eurosummit del 20-21 giugno, in contrasto con la risoluzione approvata solo due giorni prima, il 19, che impegnava il governo a “trasmettere alle Camere le proposte di modifica del trattato”, a “esprimere la valutazione finale solo all’esito della dettagliata definizione di tutte le varie componenti del pacchetto” e a “sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato”.
Insomma, il punto non è dimostrare che il Parlamento e i leader della maggioranza sapevano del negoziato in corso e dei dettagli della bozza in discussione – come vedremo ne sapevano molto poco, al di là di alcuni passaggi formali e informative di rito. L’informazione fondamentale, cioè che si sarebbe chiuso l’accordo sulla bozza il 13 giugno, con l’approvazione finale dei leader Ue al vertice del 20-21, senza possibilità di riaprire il negoziato sul testo, fu taciuta al Parlamento e, pare, anche agli stessi vicepremier e ministri. Perché allora il 19 giugno il premier ha dato parere favorevole ad una risoluzione che sapeva benissimo essere già superata dai fatti, addirittura contribuendo alla sua stesura? Quale atto di indirizzo avrebbe potuto esprimere il Parlamento, se il testo era già chiuso?
Quanto vincolante fosse quell’impegno è dimostrato oggi. Se il premier non ha ancora firmato nulla, perché non proporre e negoziare modifiche? No, si risponde, il testo è chiuso, l’accordo approvato. A tal punto che se ci tirassimo indietro proprio ora, ci viene spiegato, perderemmo credibilità. Addirittura, la nemmeno troppo velata minaccia è che ogni nostra incertezza verrebbe percepita come insicurezza sulla sostenibilità del nostro debito pubblico, con le conseguenze che potete immaginare.
Dunque, non la firma, ma il 13 giugno dal ministro Tria e il 20-21 dal presidente Conte arrivò il via libera ad un accordo politico vincolante sulla riforma del MES.
E ieri fonti dell’Eurogruppo l’hanno confermato, smentendo Conte: la bozza fu approvata il 13 giugno e non si può riaprire. Ora si sta lavorando solo alla legislazione secondaria. Sarebbe meglio firmare già a dicembre, ma tutt’al più, si può rinviare di un paio di mesi la firma. Febbraio, come si è lasciato sfuggire Gualtieri in audizione. Una piccola concessione al governo italiano, evidentemente per permettergli di scavallare la sessione di bilancio.
L’unico momento interessante dell’informativa di ieri alle Camere è stato l’intervento di Alberto Bagnai al Senato. Il presidente della Commissione Finanze ha rivelato due retroscena che confermano la mancanza di trasparenza e di condivisione con la maggioranza di allora da parte di Palazzo Chigi e del MEF e contraddicono, quindi, la ricostruzione del premier Conte. Il 30 maggio, racconta il senatore leghista, il direttore generale del Tesoro si rifiutò di mostrargli la bozza di accordo, opponendo il segreto perché era un testo discusso all’Eurogruppo. Poi, il giorno prima dell’Eurogruppo, quindi il 12 giugno, Bagnai racconta di essersi recato a Palazzo Chigi con i viceministri Garavaglia e Castelli per visionare un testo “con le parentesi quadre ancora non risolte” e il capo di gabinetto “che doveva controllare che non prendessimo appunti, che non fotografassimo e che non comunicassimo con l’esterno”.
L’altro equivoco su cui ha giocato il premier Conte ieri è sul cosiddetto “approccio a pacchetto”. La posizione dell’Italia era che l’accordo finale dovesse riguardare tre questioni: revisione del trattato MES, introduzione del bilancio dell’Eurozona e unione bancaria, con l’assicurazione europea sui depositi (EDIS). Un principio ribadito anche dalla risoluzione parlamentare del 19 giugno e fatto proprio dal governo. Mentre sul primo punto si è arrivati a chiudere un accordo politico, per quanto riguarda gli altri due pilastri dell’unione economica e monetaria non sono stati ancora compiuti sufficienti passi avanti.
Il fatto che il nostro governo abbia perseguito l’approccio a pacchetto, e che in effetti i negoziati siano proseguiti in parallelo, non significa, come pretende il premier, che la condizione posta dal Parlamento sia stata soddisfatta. All’Eurosummit di dicembre, infatti, l’unico accordo sul tavolo da firmare sarà la riforma del MES, mentre la risoluzione parla chiaro: l’approvazione deve riguardare l’intero pacchetto. Conte avrebbe dovuto presentarsi alle Camere per spiegare perché il “pacchetto” è saltato e chiedere un nuovo indirizzo.