Negli ultimi 10 anni, dal 2009 ad oggi, in Iran le proteste contro il regime sono state diverse. A cominciare da quella degli studenti dell’università di Teheran, fino alle proteste di queste settimane contro il rincaro del prezzo del carburante, passando per le proteste dell’Onda Verde del 2009-2011 e quelle contro la corruzione finanziaria del 2017-2018.
Tutte queste proteste, come noto, sono state tristemente represse nel sangue. Repressioni che, a quanto pare, hanno toccato l’apice proprio nei confronti delle ultime manifestazioni di piazza, scoppiate ancora (come suddetto) per ragioni economiche. Nonostante le violenze del regime, nonostante i morti e nonostante gli arresti e le minacce di pena capitale, non c’è praticamente nulla che il regime possa fare per fermare queste rivolte popolari, se non avviare un forte cambiamento interno verso lo stato di diritto.
A raccontarci quanto accade non sono analisi di intelligence o supposizioni, ma i dati del report Onu “Human Development Index 2019” relativi alla Repubblica Islamica. Basta dare uno sguardo al ranking di Teheran in questo indice e paragonarlo a quello relativo ad altri indici, per notare tutta l’incredibile discrasia.
Nel ranking HDI, infatti, l’Iran è al 65° posto, una posizione di assoluto rispetto, soprattutto se paragonata a quella di altri Paesi della regione (esclusi Israele, Kuwait e Turchia). Nella Repubblica Islamica, dove la percentuale di popolazione giovane è altissima, dal 1990 ad oggi sono cresciuti costantemente il livello di educazione, il reddito nazionale lordo (grazie praticamente al solo oil & gas) e l’aspettativa di vita.
Ma mentre l’indice HDI dell’Iran cresce positivamente, ci sono altre classifiche che riguardano il regime iraniano che, pur vedendo la Repubblica Islamica ai primi posti, non indicano affatto un dato positivo. In questo caso, però, non si tratta di indici “sociali”, ma di indici “politici”, inerenti alle scelte fatte da chi comanda in Iran, soprattutto dal 1979 ad oggi.
Ecco allora che, dal 1984, la Repubblica Islamica è al primo posto al mondo per finanziamento del terrorismo internazionale. Oltre a rappresentare un abominio, si tratta anche di un dato che racconta come il regime abbia costantemente distorto denaro pubblico destinato allo sviluppo per sostenere la diffusione della Rivoluzione khomenista nel mondo, perché è questo – non dimentichiamolo – il primo obiettivo del regime dal 1979 ad oggi ed è per questo motivo che è stata creata la Forza Qods, corpo speciale dei Pasdaran. Uno studio interessante in questo senso è quello realizzato a maggio 2019 dal prof Mario Baldassarri per l’ong italiana Nessuno Tocchi Caino.
Ancora: secondo Transparency International – che misura il livello di corruzione nei vari Paesi del mondo – il regime iraniano è al 28° posto, su 180 Paesi analizzati. Ovvero, ha al suo interno un livello di corruzione e mancanza di trasparenza altissimo, che è la causa principale delle proteste economiche degli ultimi due anni e del fallimento del business tra Repubblica Islamica e Occidente, anche durante il periodo di maggior appeasement occidentale verso Teheran, coinciso con l’Iran deal sul nucleare voluto dal presidente Usa Obama.
Ancora e non meno importante: l’Iran ormai non risulta neanche più classificabile per l’Indice di Basilea, che misura – anche in questo caso – il livello di corruzione generale in un Paese, soprattutto per quanto riguarda il riciclaggio di denaro. Ecco, se nel 2017 l’Iran deteneva il triste primato di questo indice, oggi la Repubblica Islamica non è nemmeno in classifica, non essendo nemmeno più misurabile il livello di corruzione e riciclaggio di denaro (a fini terroristici) presenti nel Paese. Un risultato che l’Iran condivide con Siria, Iraq e Turkmenistan, ovvero due Paesi praticamente in guerra e una dittatura.
Infine, dulcis in fundo, secondo Reporters Senza Frontiere, l’Iran è 170esimo su 180 Paesi, per libertà di stampa. Ovvero, un Paese considerato tra i più repressivi per quanto riguarda la persecuzione dei giornalisti, degli attivisti, dei bloggers e in generale di tutti coloro che provano a dare una informazione diversa da quella veicolata dal potere centrale. Dati che portano Freedom House a dichiarare l’Iran “Paese non libero” per quanto concerne la libertà di stampa e di navigazione sui social networks.
Concludendo, prevedere il futuro è impossibile. Immaginare regime change è inutile, anche perché, purtroppo, le repressioni non impediscono le evoluzioni della storia, ma certamente non le aiutano. Detto questo, basta guardare ai numeri per capire che, al di la’ di tutte le repressioni, non ci sarà potere centrale in Iran che riuscirà a limitare il malcontento nel Paese, senza cambiare radicalmente la natura del regime che lo governa.
In questo senso, il solo cambiamento che potrà riportare la pace sociale in Iran, è il rispetto dello stato di diritto, la fine del sostegno al terrorismo internazionale, l’investimento dei soldi oggi usati per la jihad nello sviluppo pubblico e la concessione dei diritti politici, civili e di genere a tutti i cittadini. Per fare questo, il regime deve mutare, rafforzando le istituzioni democratiche elettive che ha al suo interno ed eliminando lo stato parallelo che governa oggi il Paese, quello comandato dalla Guida Suprema, dalle fondazioni religiose e dai Pasdaran.