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Genesi e apogeo del PB, “Partito di Bruxelles”, e le due grandi restaurazioni dell’europeismo

Zuppa di Porro: rassegna stampa del 10 ottobre 2019

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La crisi del governo Conte e la seguente nascita del governo Draghi ha rappresentato un punto di svolta nella recente storia politica del Paese. Un governo, quello guidato dall’ex presidente della Bce, che, ancora più di quello del suo predecessore, si è caratterizzato per l’appello ai “valori europei” e all’“europeismo”.

Il partito che più convintamente ha mostrato una retorica in questo senso è stato, nel corso degli ultimi 20-30 anni, il Pds-Ds-Pd. A questo punto sembra necessario ricostruire brevemente l’adesione della sinistra post-comunista italiana all’europeismo per cercare di capire alcune dinamiche che hanno determinato il ruolo dell’attuale Pd come quello del Partito di Bruxelles.

L’Italia dei primi anni Novanta è scossa da tre eventi: la fine della Guerra Fredda, con la conseguente rivalutazione della nostra posizione sullo scacchiere internazionale; la firma del Trattato di Maastricht, che impone una rivalutazione della nostra politica economica e del nostro capitalismo di Stato e di relazioni; lo scandalo Tangentopoli, che tocca tutti i principali partiti di governo della Prima Repubblica, rendendoli, di fatto, invotabili o impresentabili. Questi tre eventi, che solo apparentemente si presentano come insieme discreti, sono in realtà interrelati.

La vecchia Italia del boom economico, dell’espansione della spesa pubblica e del rapporto perverso tra partiti e imprese viene riposta in soffitta da Maastricht. Finisce un’era politica. Gli imprenditori sono stufi di pagare una politica arrogante e inefficiente: con il tempo, si sarebbero accorti che, forse, era più facile operare come si faceva a quei tempi che non nella nuova Italia – e nella nuova Europa – post-Maastricht. Ma tant’è. La ventata nuovista e il sogno di una palingenesi economica e morale – tratti precipui della storia dell’Italia e della sua politica – hanno il vento in poppa. Il vecchio sistema screditato da anni di partitocrazia e privilegi viene spazzato via dall’ingresso in un sistema meno flessibile, quello di Maastricht, che prevede rigidi paletti al rapporto debito/pil e deficit/pil. Addio manovre espansive e spesa corrente: l’Italia entra nell’era dell’austerity.

A interpretare il sentimento del popolo e il New Deal della nuova Italia è un gruppo di magistrati di Milano, che iniziano una raffica di inchieste sui principali protagonisti politici – e non solo – di quegli anni. I leader di Dc, Psi, Pli, Pri e Psdi sono travolti dall’inchiesta “Mani Pulite”, che rivela finanziamenti illeciti, un vorticoso giro di mazzette tra partiti ed enti statali e parastatali, e una corruzione diffusa. La gente scende in piazza per sostenere Di Pietro, Davigo e Colombo. Lo stato di diritto è sospeso: un avviso di garanzia equivale a una condanna, i giornali cavalcano la protesta delle piazze, la carcerazione preventiva diventa da eccezione il metodo preferito dal pool per “fare cantare gli arrestati”. La politica è impotente. Le elezioni del 1992 portano alla nascita del governo Amato, ma è con l’esecutivo guidato dall’ex governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, che le cose cambiano. Per la prima volta nella sua storia l’Italia si affida ai tecnici. E non solo. Per la prima volta ci sono ministri post-comunisti al governo. Il Pds sbagliò i calcoli ritirando i suoi 3 ministri dopo che la Camera respinse l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, dimostrando di non avere ancora metabolizzato la svolta governista, ma il dado è tratto.

I pidiessini rimangono l’ultimo grande partito di massa sopravvissuto – e toccato solo sensibilmente – dalle inchieste del Pool. Spazzati via il grande contenitore democristiano e il nuovo contenitore craxiano, il Pds resta l’unico punto di riferimento politico nel cuore dello Stato. È qui che avviene il matrimonio tra Bruxelles e Botteghe Oscure. Se Gianni Agnelli affermava che “l’amore è una cosa per cameriere”, tra Palazzo Berlaymont e il vertice del Pds non si può certo parlare di sentimento. Si tratta di un matrimonio di pura convenienza politica – come tanti per la verità – nel quale la sinistra post-comunista sostituisce all’ideale sovietico quello europeo, e le istituzioni europee – che dall’Atto Unico hanno acquisito sempre più peso e autonomia – identificano nella sinistra il referente politico italiano. E, a proposito di camerieri, il tempo avrebbe dimostrato chi dei due avrebbe servito l’altro.

Per la verità la svolta europeista era stata preparata già in due fasi dai pidiessini. Ai tempi in cui il partito si chiamava ancora Pci, Berlinguer lanciò la linea “eurocomunista”, in accordo con i partiti comunisti mediterranei, francesi e spagnoli. Berlinguer fu tra l’altro anche il teorico della “questione morale” che diromperà successivamente proprio nel biennio 1992-1994, quello di Tangentopoli. Poi, caduto il Muro di Berlino, Occhetto elemosinò a Craxi l’ingresso del neonato Pds nel Partito Socialista Europeo, uno dei gruppi più rilevanti all’europarlamento.

Non c’è nessuna dietrologia, nessun complottismo, nessuna trama oscura. La politica è anche una questione di spazi politici e in quel momento c’era un’autostrada che da Roma andava a Bruxelles pronta a essere occupata dalla gioiosa macchina da guerra.

Nella Seconda Repubblica, è Silvio Berlusconi a distruggere il progetto di una sinistra al governo. Viene colpito da una raffica di avvisi di garanzia e screditato a livello internazionale, fino al punto di dovere dimettersi una prima volta nel 1994, e una seconda, definitivamente, nel 2011. In entrambe le occasioni emerge la figura del presidente della Repubblica: prima Oscar Luigi Scalfaro, poi Giorgio Napolitano, che adottano iniziative autonome per ripristinare il corso degli eventi, il corso della storia. Iniziative che trasformano il ruolo del capo dello Stato e avvicinano l’Italia a quella repubblica presidenziale (ma, piccolo dettaglio, senza elezione diretta del presidente), che proprio Berlusconi avrebbe in mente e che è avversata dalla sinistra.

Dopo i governi Ciampi (1993) e Dini (1995), l’Italia conosce altre due grandi restaurazioni del potere e del suo – apparente – manifesto destino europeo. Nell’autunno 2011 Mario Monti viene chiamato a sostituire Berlusconi, dopo che Napolitano lo nominò di fretta e furia senatore a vita, e dopo che le consultazioni per un cambio a Palazzo Chigi erano partite già dall’estate precedente coinvolgendo anche personaggi interni allo stesso governo Berlusconi. Quest’ultimo non solo si fa da parte senza essere stato sfiduciato dal Parlamento, ma, addirittura, sostiene Monti e il governo di unità nazionale presieduto dall’ex rettore della Bocconi. Il minimo comune denominatore delle forze della maggioranza di Monti è, manco a dirlo, l’europeismo.

La seconda grande restaurazione è quella che stiamo vedendo. Il Parlamento votato dagli italiani nel 2018 dà la maggioranza alle forze euroscettiche e populiste, che hanno in mente una radicale trasformazione del rapporto tra Italia e Unione europea. Nasce il governo gialloblu ma il Movimento 5 Stelle si trasforma, nello spazio di un battito di ciglia, in un partito europeista e pro-euro. Nell’estate 2019 si consuma lo strappo tra Lega e pentastellati. Nasce, sotto l’egida di Bruxelles, che piazza al Mef un suo europarlamentare di lungo corso, il Conte 2, appoggiato da Pd, LeU e M5S. Nel discorso del suo insediamento alle Camere l’Avvocato del Popolo fa riferimento all’Europa come cardine della sua azione politica.

Ma se i tempi della politica sono quelli che sono, anche quelli degli interessi reciproci sono molto brevi. Conte nicchia sul Recovery Fund, dà l’impressione di non padroneggiare più la situazione e Renzi – artefice della nascita del Conte 2 – gli leva la fiducia. A questo punto emerge nuovamente la figura del capo dello Stato, che, constatata l’impossibilità di andare avanti per l’inquilino di Palazzo Chigi, gioca la carta del più europeista degli europeisti, Mario Draghi, già uomo di Bankitalia e autore del celebre whatever it takes che salvò l’euro – e l’intero progetto europeo – dal fallimento. Il presidente della Repubblica si rivela nuovamente il punto di riferimento di tutti coloro – politici, imprese, grand commis – che identificano l’interesse nazionale con l’appartenenza all’Unione europea.

Le forze politiche rispondono positivamente all’iniziativa di Mattarella: anche il primo partito italiano, la Lega, entra nel governo. Resta fuori solo Giorgia Meloni e il suo Fratelli d’Italia, l’ultima carta da giocarsi nel 2023 in caso di naufragio del Paese e nuova ventata populista: Meloni è infatti la presidente dei Conservatori e Riformisti Europei all’europarlamento, e, in una lettera a Repubblica pubblicata nei giorni successiva alla nascita dell’esecutivo Draghi, si dichiara favorevole a una “Europa delle Nazioni”. Un pensiero che nella storia dell’europeismo è magari minoritario ma tutt’altro che insussistente.

Gianni Agnelli, non si può che tornare a lui che il 12 marzo avrebbe compiuto 100 anni, fu uno dei volti principali della Prima Repubblica: titolare della più grande multinazionale italiana, presidente di Confindustria, una famiglia di simpatie repubblicano-azioniste ma con un fratello eletto nel partito che contava all’epoca – la Democrazia Cristiana – rapporti stretti con il mondo politico e finanziario francese e americano, è sempre stato uno dei più grandi fautori dell’europeismo nostrano. Da imprenditore aveva tutto l’interesse a che venissero liberalizzati servizi e capitali e le persone potessero circolare (e lavorare) liberamente all’interno del blocco europeo. Da cosmopolita dedicò molti dei suoi discorsi – editi nel volume “Una certa idea dell’Europa e dell’America”, introdotto magistralmente da Valerio Castronovo – all’ideale di un’Europa unita e di un’Italia che non poteva che avere la collocazione all’interno dell’Ue come sua unica prospettiva continentale. Questa sì, una visione maggioritaria in un establishment italiano che lui rappresentava – e tutt’ora rappresenta – alla perfezione.

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