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Il “fattore-BoJo”: perché Johnson ispira fiducia, a dispetto della narrazione faziosa dei nostri media

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La notizia dell’uscita di Johnson prima dalla terapia intensiva, poi dall’ospedale, ha fatto tirare alla Gran Bretagna un sospiro di sollievo: la sua guida è in via di ripresa ed è pronta a tornare in prima linea nella gestione dell’emergenza. La grande maggioranza dei britannici è dalla sua parte: i Conservatori si mantengono costantemente sopra il 50 per cento nei sondaggi e Johnson è in testa nelle classifiche sul gradimento dei politici. Qual è il segreto di questo successo? Come mai nonostante la nazione sia duramente provata dal virus e ci siano state, inutile nasconderlo, alcune pecche nella gestione dell’emergenza, Boris Johnson riesce a interpretare ancora il sentimento del Paese?

Pochi giorni fa un grande quotidiano italiano rinfacciava al premier britannico ancora in terapia intensiva il suo essere troppo “liberale e libertario”, come se ciò fosse un motivo di demerito. Al netto della gestione dell’emergenza, però, non si può negare che Johnson abbia una presa forte sull’opinione pubblica e sia in grado di ispirare ancora fiducia ai cittadini provati da questa terribile epidemia.

Boris Johnson, come ha affermato l’editorialista dello Spectator, ha avuto successo nel convincere i propri cittadini non solo ad aiutare il NHS con forme diverse di volontariato, ma soprattutto accettando le misure di restrizione che fino a poche settimane fa nessuno avrebbe immaginato. Il primo ministro ispira fiducia perché tutti hanno capito quanto lui stesso sia contrario per principio a queste restrizioni statali, e si ha la certezza che non terrà tutto fermo un solo giorno in più del necessario.

La differenza tra Johnson e gli altri leader europei è che sul Continente la classe politica prova “un po’ troppo gusto”, per citare ancora lo Spectator, nel fare ricorso ai poteri straordinari durante l’emergenza. Se in Italia possiamo dire di avere il culto dell’uomo forte, in Gran Bretagna è più diffuso il culto della proprietà privata, ed è chiaro che nessun leader serio ha davvero interesse, dal punto di vista morale ma anche elettorale, a toccare ciò che i suoi cittadini sono pronti a difendere con le unghie e con i denti.

Quando lo stato estende la propria influenza a nuovi settori molto difficilmente poi è in grado di battere una onesta ritirata: Boris Johnson in Gran Bretagna è la garanzia che questa ritirata potrà avvenire. Nel vocabolario politico del premier pre-virus non esistevano cose come i “poteri speciali”, e lo stesso slogan della campagna elettorale, “Unleash British Potential”, era un diretto riferimento al fatto che la crescita avviene grazie al mercato e ai privati, quando lo Stato ne garantisce la libertà.

Johnson ha dovuto adattarsi a malincuore a una serie di misure che chiaramente lo imbarazzano, perché Oltremanica sono state davvero rare le occasioni in cui ai cittadini veniva chiesto di accettare quello che a tutti gli effetti verrà ricordato come “stato di polizia”. Nel migliore dei casi questa situazione si risolve con la vecchia e buona abitudine inglese del policing by consent, cioè da un reciproco riconoscimento e da una reciproca responsabilità tra i cittadini e i pubblici ufficiali chiamati a far rispettare le misure di lockdown.

L’appello a questa misura di buonsenso fa parte del “fattore Boris”: avere Johnson al governo è per i più una garanzia che i limiti della decenza nell’intervento statale non verranno superati, e che una volta passata l’emergenza si tornerà verso la normalità. In Italia, dove tutti questi bei discorsi sulla rule of law e sulla accountability della classe politica sembrano non avere il minimo valore, avremmo bisogno di più “fattore Boris” e meno estremismo giallo-rosso. Anche il nostro Paese ha un grandissimo potenziale: l’unica sfida per ripartire è appunto quella di liberarlo.

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