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Il miraggio della “fase 2”: non è più tempo di task force e comitati, né dei “pieni poteri” di Conte

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Guerra, fronte, trincee, nemico invisibile, eroi, caduti… ma, poi, il comando vero cui si deve ubbidire, è il “tutti a casa”, che se ricorda qualcosa, richiama il giorno dopo l’armistizio del settembre del 1943

Se mai c’è un miraggio, che viene ravvivato giorno dietro giorno dall’appuntamento televisivo del tardo pomeriggio, è quello del calo della pandemia, volta volta individuato nell’indice a ciò più favorevole fra quelli utilizzati: numero dei contagi, assistiti in terapia intensiva, ricoverati in ospedale o seguiti a domicilio, deceduti. Ma questo rosario giornaliero, recitato dal nostro numero uno della Protezione civile, con lo stile di un diligente impiegato all’anagrafe, proprio in ragione del suo costante ondeggiare, poco ci dice circa la fine dell’incubo e assolutamente niente circa il ritorno alla vita normale. Siamo tutti rinchiusi nelle nostre celle più o meno confortevoli, costretti a seguire il ritorno del bel tempo attraverso le grate delle finestre, senza sapere quanto lunga sarà la detenzione, rinnovata ogni volta alla sua scadenza, senza lasciare per nulla prevedere se e quando avrà fine. Nel frattempo, i nuovi esorcisti del coronavirus, i virologi ufficiali, sono resi titubanti dall’andamento delle curve epidemiologiche, di gran lunga più elevate e costanti di quelle da loro previste, lasciando spazio aperto per le notizie più contraddittorie, riprese, ampliate, enfatizzate per ogni dove: da un lato le ottimistiche previsioni di tempi brevi, se non brevissimi, della sperimentazione umana di vaccini; dall’altro le pessimistiche conclusioni di periodi lunghi, se non lunghissimi, della persistenza virale, con la conseguente necessità di prolungare le misure protettive.

Ora capisco le ambasce di Conte, che sta godendo di tutto il consenso di chi sta al timone in un mare ribollente, proprio perché nessuno è in grado di indovinare la rotta giusta, ma l’incertezza è la tomba del politico. Né, avendo già avuto l’opportunità di scaricare completamente la responsabilità della gestione della “fase 1” su un Comitato tecnico-scientifico, circondato da un mistero rotto solo dalla partecipazione di qualche suo membro alla conferenza stampa delle 18, Conte può ora pensare di fare altrettanto per la conduzione della “fase 2”, dando vita ad una task force tecnica. A far discutere non è qui la sua composizione, anche se non è facile immaginarci la sintesi fra studiosi di settori diversi, bensì la sua stessa ragione di essere, per un duplice motivo: primo, perché il previsto coordinamento fra Comitato scientifico e task force tecnica non nasconde la prevalenza del primo rispetto al secondo per quanto riguarda le coordinate temporali e spaziali della “fase 2”, che deve essere modulata in ragione del persistere e della eventuale nuova diffusione del virus; secondo, perché la effettiva manovra all’interno di quelle coordinate, è questione strettamente politica, con una crescente ripresa della rilevanza delle ragioni economiche-finanziarie, sì da rendere indispensabile una rivitalizzazione della dinamica parlamentare, della dialettica Governo e autonomie locali, della concertazione con le cosiddette forze sociali. Vi ha dato voce il futuro presidente della Confindustria, Bonomi, dicendo, senza ricorrere a perifrasi, che questo è tempo non più di consulenze tecniche da parte di Comitati, ma di decisioni politiche da parte degli organi istituzionali.

Fino a quando il governo e la sua indisciplinata maggioranza, che, dopo aver pensato di creare una Commissione europea a sua misura si ritrova dilaniata sul che fare con la Ue, abuserà della pazienza del popolo italiano? Le medagliette di latte che quotidianamente vengono appuntate sui camici di medici, paramedici e infermieri, con sullo sfondo lo sventolare di un tricolore tolto per l’occasione dalla naftalina, possono oscurare momentaneamente i ritardi ieri, ma non gli incubi di un domani fosco e minaccioso come un temporale estivo. Tutto c’è contro: siamo il Paese con la più alta percentuale di decessi rispetto ai contagiati accertati e con la più rigida e prospetticamente duratura permanenza delle misure restrittive; saremo il Paese con una perdita del Pil di questo 2020 superiore al 9 per cento, con la Grecia a impedirci di vestire la maglia nera. Certo, è bene augurante scrivere sul pannolino di un neonato, addormentato sul pancino, “tutto andrà bene” e farne un leitmotiv che ormai accompagna gran parte della pubblicità esposta su carta e tv, ma a me richiama quelle scritte sui muri dell’era mussoliniana, come si dovesse risvegliare di continuo uno spirito bellico che per fortuna ci è estraneo. Guerra, fronte, trincee, nemico invisibile, eroi, caduti… ma, poi, il comando vero cui si deve ubbidire, è il “tutti a casa”, che se ricorda qualcosa, richiama il giorno dopo l’armistizio del settembre del 1943, che solo a posteriori può essere considerato positivo, per aver segnato l’inizio della fine della dittatura fascista.

Per ora si guadagna tempo, ma non c’è Paese, per quanto disastrato, che non cerchi già di prospettarsi operativamente il domani. Non si tratta solo di quando e come far uscire la gente dalle case, ma di affrontare le problematiche aperte da una crisi destinata ad alimentare la nuova grande paura, che nel secolo scorso è stata quella della atomica e in questo secolo è quella del virus. Fra queste non ultima quelle istituzionali, emerse non meno drammaticamente, ignorate nella stretta della crisi, se non utilizzate per una polemica politica di corto respiro. A dirla in breve, è tutta la tematica relativa alla gestione della emergenza, che non trova alcuna copertura in una Costituzione fortemente parlamentarista, la quale implicitamente riservava la relativa attivazione e disciplina alle due Camere, come quelle legittimate a dichiarare lo stato di guerra, sulla premessa di una diplomazia cavalleresca del tutto cancellata dopo Pearl Harbour. Il che suonava a favore di un forte radicamento parlamentare che se pur non realizzato con un governo di unità nazionale, avrebbe dovuto comportare un effettivo coinvolgimento dell’opposizione, non edulcorato ad una mera audizione da parte del presidente del Consiglio delle proposte avanzate unitariamente dal centrodestra, per poi disattenderle del tutto, col porre la fiducia alla conversione del relativo decreto legge.

Quello che è stato ed è apparso a tutto tondo è il ruolo esclusivo giocato da Conte, come detentore di un potere unico, gestito tramite fonti auto-legittimate, come i decreti emanati quale presidente del Consiglio; ed esibito con comunicazioni alle Camere senza votazione alcuna e con conferenze stampa sostanzialmente a reti unificate. Uno solo al comando, senza averne il conforto di una elezione, ma solo il consenso maturato come uomo forte, allorché vien naturale affidarsi a chi pare tenere il timone, aspettando speranzosi che il mare si calmi. Perché tanto clamore contro il sovranista Orban, per il fatto di essersi avvalso di una precisa disciplina prevista dalla Costituzione ungherese per l’emergenza, proclamandola a tempo indeterminato, quando il nostro Conte l’emergenza l’ha fatta entrare a forza nella carta costituzionale, certo con scadenze, ma rinnovabili e rinnovate? Perché tanto timore verso il sovranista Salvini, per il fatto che, una volta insediato come primo ministro, avrebbe modificato la Costituzione per poter assumere i “pieni poteri”, cosa fra l’altro bella e lunga nonché poco fortunata, quando il nostro Conte i “pieni poteri” li ha esercitati e li esercita di fatto nel vuoto costituzionale?          

Altro che riduzione del numero dei parlamentari, che, complice il coronavirus, è divenuto ormai un mezzo per perpetuare l’esistente, con buona pace del segretario della Lega, che ha dato semaforo verde al referendum confermativo; questa dell’emergenza sarebbe la riforma costituzionale da mettere in cantiere. Ma la partita più importante sarà quella dell’autonomia regionale, che, rimasta bloccata col cambio di maggioranza, da giallo-verde a giallo-rossa, è già tornata alla ribalta, come mostra la campagna diffamatoria alimentata dai cosiddetti mass media indipendenti nei confronti della Regione Lombardia, con a seguire lo sciame delle procure. Non c’è da aspettarsi nulla di buono da una maggioranza parlamentare approntata in fretta e furia per evitare una elezione politica data per perdente; e che, ancor oggi, a stare ai sondaggi, che pur sembrano premiare Conte, risulta minoritaria e concentrata nel centro-sud, sì da vedere le regioni del nord a forte radicamento leghista quali realtà da imbrigliare, riportandole al passo con un Governo sempre più attardato.

Solo che senza quelle regioni, che con ritardi ed errori hanno portato il peso maggiore, come verrà loro riconosciuto quando ci sarà tempo e spazio per bilanci veritieri, il Paese non può certo ripartire, tanto più che sono proprio Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia a chiamare a raccolta tutte le forze scientifiche, economiche, sociali attive nei loro territori, sollecitando il via libera da un governo titubante. Se c’è una illusione destinata ad essere dissolta propria dalla recente esperienza, nonostante la tendenza ad accreditarla da parte di chi controlla i palazzi romani, è quella che in una democrazia si possa affrontare e superare una emergenza epocale con una cattiva imitazione di una dittatura, ordini secchi e tacchi sbattuti. Ci vuole convinta partecipazione dal basso, attraverso le istituzioni, le comunità, le associazioni in cui i cittadini si riconoscono, con un processo bottom-up; se questo non ci fosse stato e non continuasse ad esserci, non si riuscirà a vedere nessun segno di luce in fondo al tunnel.

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