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Italia chiusa, il governo vivacchia: ma per quanto ancora è sostenibile?

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Sono ormai più di due settimane che gli italiani sono chiusi nelle loro case, privati delle loro libertà costituzionali e resi schiavi dell’ultimo modello di autocertificazione. Passano i giorni, si susseguono gli annunci, i giornali ci raccontano ogni lunedì che quella che verrà sarà “la settimana decisiva”, ma nel frattempo, nell’Italia reale, continuiamo a contare migliaia di morti e di contagiati.

Una premessa è doverosa: chiunque si fosse trovato a fronteggiare una sfida di questa portata, sarebbe stato in enormi difficoltà. Destra o sinistra non importa, non eravamo pronti per questa emergenza. Detto questo, dopo settimane in cui ci siamo sentiti ripetere all’infinito “questo non è il momento di fare polemiche”, giustamente, è giunto il momento di tirare qualche somma – o meglio sottrazione. Anche perché passano le settimane e, almeno da qui, la luce in fondo al tunnel non si vede.

Ciò che manca a questo governo è una visione, stanno vivendo alla giornata, pensando a cosa c’è da chiudere, piuttosto che a come e a quando riaprire. Vivere nella speranza che i contagi diminuiscano, senza attuare una politica seria di tamponamento e tracciamento dei positivi, calcolando l’enorme massa di asintomatici “sommersi”, significa vivere nella menzogna. Significa mentire al popolo italiano.

La domanda è solo una, talmente semplice che fa paura: fino a quando potremo rimanere a casa, senza lavorare, con tutto quello che ne consegue?

Il tempo massimo di sopportazione è quasi raggiunto. Non vogliamo morire di coronavirus, ma non vogliamo morire nemmeno di fame. E la cosa preoccupante è che il governo non ha minimamente accennato alla durata di queste restrizioni. Come scrisse il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, qualche giorno fa: “Per favore, almeno non prendeteci in giro”.

Proviamo a ragionare: uno stop di due, tre, quattro mesi è fattibile? Direi proprio di no. Sarebbe una catastrofe su tutti i fronti. Perciò bisogna trovare il coraggio di dire che per un periodo dovremo conviverci, con questo virus infame. Almeno fin quando non uscirà un vaccino. Magari inizialmente le persone più a rischio, pensiamo ai nostri nonni ed agli immunodepressi, continueranno a rimanere a casa. Sicuramente tutti coloro abilitati a lavorare in smart working continueranno a farlo. Ma tutti gli altri, piccole, medie e grandi imprese, devono riaprire. Ci sarà l’obbligo per chi lavora di munirsi di mascherine e guanti, l’obbligo per i clienti di indossare mascherine e guanti. Ma devono riaprire. E magari lasciamo anche un po’ di sana libertà ai cittadini di scegliere quanto e quando uscire di casa. Siamo tutti a conoscenza del rischio, quindi tutti consapevoli. Ma dobbiamo ripartire.

In conclusione, ripensando a sabato sera, quando nella “consueta” (sic) diretta Facebook di mezzanotte, il presidente Conte ci ha invitato ad usufruire del tempo concessoci da questa quarantena per riflettere, per ragionare sui nostri stili di vita (sbagliati, secondo lui). Caro primo ministro, ho deciso invece di sfruttare questo tempo per pregare. Sì, pregherò per Lei, chiederò che questo governo possa finalmente prendere una decisione, una posizione su qualcosa. Soprattutto implorerò che per comprare le mascherine, i respiratori e i tamponi vi decidiate a violare le norme, così come avete violato le nostre libertà. Coraggio, presidente. Il tempo scorre, e non torna più indietro. Tic – toc.

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