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Jack Ma ricompare in pubblico: la leadership di Pechino teme tycoons e generali

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È finalmente ricomparso in pubblico dopo un’assenza di tre mesi Jack Ma, il celebre fondatore del colosso dell’e-commerce Alibaba, definita anche “Amazon cinese”. La vicenda è tuttora piuttosto misteriosa, ma fonti affidabili hanno rilevato che il multimiliardario è sparito dopo aver rivolto pesanti critiche pubbliche al sistema bancario della Repubblica Popolare, da lui giudicato antiquato, non al passo con i tempi e simile a un “sistema di banco dei pegni”.

Il Partito comunista ha subito reagito, bloccando  l’approdo in Borsa di un investimento di 37 miliardi di dollari progettato da Ant, che di Alibaba è il braccio finanziario. Dopo la vicenda Jack Ma è per l’appunto scomparso, e il suo gruppo ha registrato perdite ingenti nelle Borse di Pechino, Shenzhen e Hong Kong.

Per capire l’importanza della posta in gioco, si deve notare che la piattaforma di acquisti e servizi online Alibaba vanta 632 milioni di utenti e un fatturato stimato in 120 miliardi di dollari. Cifre enormi, che hanno reso celebre Jack Ma anche in Occidente, dove si è spesso recato – in particolare negli Stati Uniti – per propagandare i servizi forniti dalla sua azienda. Sulla piattaforma transita un quinto di tutti i prodotti venduti in Cina, senza contare che negli ultimi anni ha ampliato molto gli affari anche in America e in Europa.

Eppure, Xi Jinping e il suo gruppo dirigente hanno risolto la questione in modo molto spiccio, accusando Jack Ma di aver acquisito sul mercato una posizione di monopolio giudicata intollerabile e contraria agli interessi del Partito. Neppure i tanti tycoon cresciuti in Cina in modo esponenziale dopo le riforme volute da Deng Xiaoping sono dunque al sicuro. Per quanto grande sia il loro patrimonio, tutti devono inchinarsi al Partito del quale, del resto, hanno in tasca la tessera (condizione indispensabile per fare affari nella Repubblica Popolare).

Altri grandi imprenditori cinesi hanno avuto problemi simili. Nel 2015 scomparve Guo Guangchang, fondatore e capo di Fosun International, poi ricomparso sulla scena. Nel 2016 fu la volta di Zhou Chengjian, a capo della più grande società di moda cinese, la Shanghai Meterbonwe Fashion, lui pure tornato al suo posto dopo un periodo di isolamento. Sorte peggiore è invece toccata al magnate Ren Zhiqiang, scomparso nel marzo dell’anno scorso. Aveva criticato la gestione della pandemia di Covid-19 osando persino definire “pagliaccio” il presidente Xi Jinping. È stato condannato a 18 anni di prigione con l’accusa di corruzione.

I dirigenti comunisti, insomma, non si fanno impressionare dai patrimoni, ed esigono che anche i multimiliardari adeguino i propri interessi a quelli dello Stato (e del Partito, che sono poi la stessa cosa). Lo stesso Jack Ma deve averlo ormai compreso. In un’intervista pubblicata dalla stampa del regime, dice infatti di “aver imparato e capito” che Xi ha ragione quando afferma che gli imprenditori cinesi devono lavorare avendo in mente “la rivitalizzazione rurale e la prosperità comune”. Dunque pure i miliardari possono essere rieducati, come facevano, ai tempi della Rivoluzione Culturale maoista, le Guardie Rosse con gli insegnanti e gli intellettuali in genere.

Il secondo fronte che il Partito osserva con grande attenzione è quello dei militari. La crescente tendenza della Cina a svolgere un ruolo di superpotenza politica – e non solo commerciale ed economica – nello scenario mondiale impone automaticamente un rafforzamento e una maggiore efficienza delle sue forze armate. Sul piano dei numeri e della quantità nessuno dubita che il grande Paese asiatico abbia le carte in regola. Su quello qualitativo, invece, gli osservatori esprimono spesso perplessità, poiché talora l’Esercito di Liberazione Popolare dà l’impressione di essere un colosso dai piedi d’argilla.

Non avrebbe grandi difficoltà a compiere atti di forza contro le nazioni più piccole – esempi tipici Vietnam e Filippine – da tempo in contrasto con il potente vicino per il controllo di numerosi arcipelaghi situati nel Mar Cinese Meridionale. Negli ultimi tempi la politica cinese si è fatta più prudente con il ritiro, per esempio, della piattaforma di ricerca petrolifera piazzata al largo delle coste vietnamite. Già più complicato è il discorso per quanto riguarda il Giappone, le cui “Forze di autodifesa” godono fama di efficienza e hanno una consistenza e una qualità tecnologica che non corrispondono in pieno al loro nome limitativo.

Dopo l’avvento al potere di Xi Jinping il tema della riforma delle forze armate è ancor più al centro dell’attenzione, e chi si reca in Cina ha modo di notarlo subito scorrendo i numerosi quotidiani pubblicati in lingua inglese come China Daily e Global Times. Il problema in sostanza è il seguente.

L’Esercito di Liberazione Popolare è da sempre sottoposto al Partito comunista e da esso controllato. I militari devono dar prova di essere fedeli alla linea politica fissata e, non a caso, nel corso di un recente viaggio ho letto più di una volta che “l’esercito deve restare leale alla leadership del partito”. Se lo scrivono tanto spesso, tuttavia, vien fatto di pensare che le cose non stiano proprio così. In un articolo si legge addirittura un ammonimento volto a porre termine agli “scontri ideologici” all’interno dell’Esercito, che vengono definiti “acuti e complicati”. Il fatto è che molti ufficiali, anche di grado elevato, invocano un maggiore distacco dalle gerarchie politiche al fine di giungere a una maggiore preparazione professionale delle forze armate.

Viene insomma chiesta una loro “nazionalizzazione”, ove con questo termine s’intende staccare le progressioni di carriera dalla fedeltà alle direttive di Partito, il quale è del resto rappresentato in modo diretto in esercito, aviazione e marina da funzionari in divisa (una volta si chiamavano, se non vado errato, “commissari politici”). Mette conto notare che una situazione analoga si ritrova anche nelle università, dove il potere reale è nelle mani dei rappresentanti del Partito piuttosto che in quelle dei rettori.

È, in fondo, una delle tante contraddizioni che la Repubblica Popolare deve affrontare dopo che il Paese, prima della pandemia, si è aperto al mondo esterno, inviando milioni di giovani a studiare all’estero. Costoro, al ritorno, portano con sé idee nuove e pretendono una modernizzazione in tempi rapidi. Nota a tale proposito Xu Guangyu, uno dei massimi esperti dell’esercito, che “alcuni giovani leader militari sono stati molto influenzati da tali idee, e ciò potrebbe causare fratture insanabili nelle forze armate”.

Il Partito ha in molti casi reagito con accuse di corruzione rivolte al mondo militare ma, essendo esso stesso al centro di numerosi scandali di uguale natura, non può permettersi di andare oltre certi limiti.

Come si possa risolvere la questione, pur in presenza degli indubbi successi economici, restando fermi allo schema del partito unico che controlla in modo pressoché totale ogni aspetto della società è tutt’altro che chiaro. Il “socialismo di mercato” in vigore dai tempi di Deng Xiaoping non può essere abbandonato se non adottando una sorta di multipartitismo, magari limitato, di stile occidentale. Ma è un’ipotesi che l’attuale leadership – come le precedenti – non intende affatto prendere in considerazione. Da tutto ciò si capisce quanto sia difficile giungere a quel “cambiamento di regime” auspicato apertamente dall’ex segretario di Stato Usa Mike Pompeo negli ultimi giorni del suo mandato. Con l’avvento dell’amministrazione Biden pare di capire che, con un ritorno agli schemi della vecchia Guerra Fredda, sia ancora la Russia a ricoprire il ruolo di grande avversario dell’Occidente. Si pone insomma minore attenzione alla Cina, che rappresenta l’avversario di gran lunga più pericoloso.

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