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La questione catalana è il “diritto di decidere”: gli esempi canadese e britannico

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La sentenza che ha condannato i “prigionieri politici” catalani a pene che vanno dai nove ai tredici anni ha generato una profonda emozione in Catalogna ed ha innescato le larghe manifestazioni che hanno attraversato il paese negli ultimi giorni. È una sentenza sesquipedale se misurata sulla base dei princìpi e valori di fondo della democrazia liberale e dell’autodeterminazione o anche semplicemente di considerazioni di buon senso politico.

Non è, invece, una sentenza che sorprende se l’unico strumento di misura è quello della pura conformità alla legge positiva e ai vincoli ed alle limitazioni all’esercizio della democrazia che essa impone. Sulla base della legalità spagnola, la sentenza non poteva che essere questa. Nessuno, ragionevolmente, si aspettava niente di diverso e non solo per sfiducia nei giudici spagnoli, ma anche perché la sentenza ha certamente la sua coerenza con il quadro legale all’interno del quale la dichiarazione catalana di indipendenza ha avuto luogo.

È chiaro, in questo senso, che lo scandalo spagnolo non sta nel fatto che chi viola la legge sia arrestato; questo avviene ovunque ed è difficile pensare – o anche desiderare – che possa essere altrimenti. Lo scandalo spagnolo sta nel fatto che si sia dovuti arrivare ad un’azione di disobbedienza in quanto erano stati negati sistematicamente nel tempo tutti i possibili spazi per un percorso riconosciuto e concordato che consentisse di accertare la volontà maggioritaria del popolo catalano.

La questione dunque è tutta legata al senso che attribuiamo alle Costituzioni. Se riteniamo che una Costituzione debba essere essenzialmente uno “Statuto del potere” che possa ottriare un determinato modello di democrazia formale, oppure se riteniamo che debba rappresentare uno strumento aggiornabile e perfettibile che deve garantire princìpi sottostanti di libertà politica. La questione del rapporto tra ordine positivo e determinazione democratica poteva trovare sbocchi ben diversi da quelli che hanno condotto al conflitto tra Barcellona e Madrid.

Particolarmente interessante, da questo punto di vista, è lo scenario canadese. Dopo la convocazione e lo svolgimento, nel 1995, di un referendum per l’indipendenza da parte del governo del Québec, varie azioni legali sono state intraprese per mettere in discussione la legalità di un’eventuale secessione. La Corte Suprema canadese affrontò la questione in una sentenza del 1998 che rappresenta un significativo precedente per il suo equilibrio e per il rispetto che mostra nei confronti di volontà politiche che emanino dal basso. Secondo i giudici del Canada, la Costituzione di un paese è l’insieme di princìpi scritti e non scritti che nel caso canadese si articolano attorno a quattro cardini – federalismo, democrazia, governo della legge e protezione delle minoranze. Una decisione costituzionale sul tema della secessione deve quindi ispirarsi allo spirito ed alla sostanza di tali princìpi.

In questo senso, per la Corte di Ottawa, un’indipendenza unilaterale non può considerarsi legale; tuttavia – e questa è la grande differenza rispetto al sentire spagnolo – a fronte del successo di un referendum indipendentista, un pieno rispetto dello spirito costituzionale impone che si debbano negoziare percorsi legali e condivisi che consentano di dare attuazione alla volontà maggioritaria espressa.

“Il principio del federalismo, in congiunzione con il principio democratico, detta che la chiara espressione del desiderio di perseguire la secessione da parte della popolazione di una provincia dia luogo all’obbligo per tutte le parti della Confederazione di negoziare cambiamenti costituzionali che rispondano al desiderio espresso. (…) Il chiaro ripudio da parte del Québec dell’ordine costituzionale esistente conferirebbe legittimità alla richiesta di secessione e stabilirebbe un obbligo per le altre province e per il governo federale di riconoscere e rispettare l’espressione di una volontà democratica, attraverso negoziati condotti in accordo ai princìpi costituzionali”.

Nel rifiutare la prospettiva di una secessione unilaterale, peraltro, la Corte precisa che fa riferimento solo all’effettiva implementazione della secessione, non all’avvio di un processo ed alla convocazione di un referendum che rientra nella piena disponibilità di una provincia e che anzi risulta sancito da questa stessa sentenza come lo strumento principe per l’accertamento dell’effettiva volontà popolare. È una sentenza che ha soddisfatto gli indipendentisti del Québec. Dal loro punto di vista il fatto che una dichiarazione di indipendenza unilaterale sia illegale non è un problema nel momento in cui vengono messi a disposizione strumenti democratici riconosciuti per addivenire al medesimo obiettivo. In altre parole, in un quadro come quello canadese, l’unilateralità è semplicemente non necessaria.

Non molto diverso è l’insegnamento che viene dalla gestione britannica della questione scozzese. I percorsi costituzionali per la gestione di una richiesta di secessione, se non ci sono, si creano. Nel giro di pochi anni le rivendicazioni scozzesi in termini di autogoverno sono state gestite con significative innovazioni costituzionali, istituendo un avanzato sistema di devolution. E poi, quando il governo scozzese ha formulato la richiesta di indire un referendum per l’indipendenza, Londra ed Edimburgo hanno trovato, in tempi relativamente brevi, i termini di un accordo per una consultazione riconosciuta. I meccanismi per un referendum indipendentista non erano “previsti”, non erano “scolpiti”, ma sono stati “trovati” ed inquadri in termini di legalità, grazie ad un sistema politico sufficientemente maturo per riconoscere che il “bipolarismo territoriale” rappresenta ormai una dimensione essenziale ed irrinunciabile della democrazia politica.

La visione spagnola – e probabilmente purtroppo anche quella italiana, se mai l’Italia dovesse essere similmente messa alla prova – rappresenta, invece, un pervertimento del costituzionalismo che diventa non strumento per affermare, bensì per negare condizioni di democrazia sostanziale ed in definitiva per proteggere lo status quo e “il potere” dalla volontà dei cittadini. Per questa ragione, per quanto la sentenza rappresenti oggi un momento di “simbolica drammaticità”, essa è solo un sintomo ultimo di un male molto profondo, rappresentato dalla concezione verticale e gerarchica delle relazioni politiche e dal concetto di confini come entità eterna ed immutabile.

In questo senso, è evidente che considerazioni di umanità nei confronti dei leader indipendentisti in prigione – e di opportunità di allentamento della tensione – devono far sperare in qualche atto di indulto da parte del governo spagnolo. Ma è evidente al tempo stesso che la liberazione dei detenuti non può rappresentare la “contropartita” di una rinuncia dei movimenti e dei partiti catalanisti a perseguire l’indipendenza, perché appunto la grande questione non è rappresentata dalla sentenza di questi giorni, bensì dall’assenza delle condizioni di agibilità costituzionale e democratica che negli anni avrebbero dovuto consentire di incanalare il dibattito sull’indipendenza all’interno di un solco legalmente riconosciuto. I leader catalani arrestati sapevano quello a cui sarebbero andati incontro e si sono assunti in tribunale la responsabilità delle proprie azioni. Come ha dichiarato al processo Jordi Cuixart, presidente della più grande e storica associazione culturale catalana ed incarcerato persino prima del referendum indipendentista, “quando mi accusano di una cosa che ho fatto che cosa posso dire se non che sì, è vero, l’ho fatta – e che avrei l’obbligo morale di rifarla qui e oggi. Tutto quello che ho fatto lo rifarei perché sono convinto che dovevo farlo – riconosco gli atti ed accetto la conseguenza. Le decisioni di questo tribunale non cambieranno le mie priorità che non sono uscire di prigione, ma lottare pacificamente perché possiamo decidere il nostro futuro”.

Dalla Catalogna alla Brexit, il “diritto di decidere” – il diritto di autoidentificazione nazionale e di adesione comunitaria – rappresenta la grande questione democratica di questi anni e le barriere che ad essa vengono poste rappresentano il Muro di Berlino di oggi. In questo senso, merita di essere riconosciuto il sacrificio di chi, in un’Europa sempre più presa nell’amministrazione dell’ordinario, ha messo la propria libertà al servizio di una causa che – al di là degli schemi ideologici tradizionali – allarga gli spazi di espressione e di rispetto della volontà dei “governati”.

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