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La rete europea di Regioni e Città: il ruolo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nell’evoluzione dei paradigmi tradizionali della politica e della società

Informazioni e connessioni: il mondo nuovo

Nel 1997 il peso medio di un’automobile era di circa 1439 kg; nel 2020 si avvicinerà a 521 kg. Fu Kevin Kelly nel 1998, nel suo libro “New rules for the new economy”, a esternare e argomentare questa previsione che a distanza di molti anni si dimostra precisa. Ma dov’è finito il peso? E’ stata rimpiazzato dall’informazione, o meglio l’informazione ha fatto sì che processi di produzione e componenti fossero sempre più affidabili e precisi, tanto da limitare la massa necessaria per svolgere funzioni simili. Massa versus Informazione: a ben pensarci è l’essenza della manifattura additiva, quella affidata (non solo) alle stampanti 3D e parte del programma Industria 4.0, di teutonica ispirazione (nella versione originale tedesca il piano Industrie 4.0 prevede una revisione sostanziale delle automazioni industriali). Vent’anni fa quando internet muoveva poco più che i primi passi e l’Internet delle Cose era solo una visione, Kevin Kelly ragionando dei prezzi dei fax (all’epoca lo strumento più diffuso per comunicare rapidamente) ricordava come nel 1965 un fax da 1000 dollari fosse capace di generare valore per un milione di dollari; lo stesso fax, al prezzo di 200 dollari nel 1997, era in grado di generare valore per oltre 3 miliardi dollari. La ragione? La rete, il network delle relazioni stabilite e la possibilità di massimizzare le relazioni degli altri. Una strategia, che osservava Kelly, rappresentava la strada maestra verso ciò che all’epoca si definiva “nuova economia”, un’economia in cui il valore sta nell’abbondanza, non più nella scarsità come nei paradigmi classici. Nel decalogo per la “New Economy” Kelly ricordava che l’unica scarsità è quella dell’umana attenzione e che il vantaggio competitivo è di chi impara a coinvolgere i punti decentralizzati (di controllo). Vent’anni più tardi l’Ict (tecnologie per l’informazione e la comunicazione) è l’infrastruttura su cui prendono forma i nuovi paradigmi della società; si legge di IoT (Internet of Thing, Internet delle Cose), di Mondo Digitale ma a fatica se ne coglie la ricaduta sul nostro assetto sociale e politico; viviamo una lunga fase di transizione, in cui modelli assai diversi si misurano nell’arena globale, dimostrando limiti e punti di forza. Come la storia ha già dimostrato, tecnica e tecnologia influenzano società, cultura e politica; la tecnologia digitale non è diversa, semplicemente agisce con più rapidità, mettendo a dura prova le capacità di cambiamento delle società. Ed è per questo che oggi, forse mai come in passato, è necessario saper leggere tempestivamente i segnali del mutamento in atto, costruendo strumenti e “attrezzi culturali” che dimostrino di funzionare nel nuovo contesto.

Internet delle Cose: la nuova mappa delle relazioni

Per cogliere la profondità degli impatti attesi è utile definire operativamente i concetti che più di altri sono oggi diffusi. L’Internet delle Cose, per esempio; se ne parla, se ne scrive ma che cos’è? E’ l’interconnessione di enti (oggetti) diversi, in grado di scambiarsi e comunicare dati tra loro, senza la mediazione di persone, in autonomia e in funzione delle modalità definite dagli algoritmi (cioè quella “ricetta precisa che specifica la sequenza esatta dei passi per risolvere il problema”, come ricorda John MacCormick). A marzo 2017, in occasione del Symposium It Gartner di Dubai, Gartner ricordò che il numero delle connessioni IoT complessive nel mondo è destinato a raggiungere la cifra di un trilione nel 2050; di queste, solo l’1% sarà tra persone, mentre il 99% sarà tra oggetti, a differenza dell’attuale dato che, a fronte dei 13 miliardi di connessioni nel 2016, ne registra 56% tra le persone e “solo” 44% tra gli oggetti. Entro il 2030 si attendono 103 miliardi di connessioni (92% tra oggetti). Oggetti e macchine “parlano” tra loro, scambiano dati e agiscono di conseguenza: ogni macchina, potenzialmente, è inserita in una pluralità di reti; ogni rete genera valore e nuove connessioni. L’IoT diventa così un abilitatore del mondo digitale, in grado di costruire nuove opportunità per creare valore e promuovere la crescita incrementale nei processi e nei modelli, senza necessariamente spingere verso la sostituzione delle tecnologie già in essere. Oltre alla capillarità delle connessioni, la crescita dell’IoT porta con sé lo sviluppo delle relazioni tra persone e luoghi, con la conseguente condivisione di informazioni, valori e opportunità oltre che di vantaggi competitivi. Quanti sono i Paesi e i sistemi politici davvero capaci di cogliere le potenzialità creative di un simile assetto? Ancora pochi, ma uno di essi è la democrazia più antica che il mondo conosca, su cui avremo modo presto di riflettere.

Mondo digitale e confini

Cosa s’intende con il binomio Mondo Digitale (Digital World)? Digital è parola piuttosto elastica, il cui significato nell’accezione più restrittiva definisce l’uso dei social media e nell’accezione più ampia coinvolge la rilettura massiva di prodotti e servizi in logica innovativa, capace di trasformare nel profondo anche i processi industriali più strutturati. La “versatilità semantica” del digital fa sì che sia fondamentale definire il perimetro entro cui muoversi per descrivere la digitalizzazione. Non serve una definizione univoca (che tra l’altro non c’è) serve piuttosto l’individuazione di un “perimetro semantico“ da cui discendono scelte tattiche e operative. Digital è aggettivo, non sostantivo; non vive di vita propria, dunque, ma solo abbinato a un sostantivo; è Digital ciò che permette connessione e condivisione di dati. Il Mondo Digitale scaturisce dall’incontro tra mondo fisico e mondo digitale grazie all’integrazione di oggetti, connessi e intelligenti, con persone e processi di vita. E’ un mondo nuovo, in cui tutti gli elementi coinvolti sono attivamente impegnati in transazioni, comunicazioni, negoziazioni; non sono semplicemente connessi tra loro, agiscono e interagiscono, trasformando attivamente il contesto in cui operano.

Riassumendo: dati, enti e persone, relazioni e connessioni, algoritmi che stabiliscono le regole della comunicazione sono i tratti salienti di una rivoluzione in atto dagli anni Sessanta del secolo scorso, in netta accelerazione oggi.

E’ una rivoluzione tecnologica e scientifica capace di rileggere i paradigmi tradizionali su cui il mondo contemporaneo occidentale ha costruito le proprie certezze politiche e sociali, a partire dalla logica dei confini e, di conseguenza, dei tradizionali Stati Nazione di ottocentesca memoria. Nel 2005 Kenichi Ohmae nel libro “Il Prossimo scenario globale” introdusse nella riflessione politica il concetto giapponese di  “kosoryoku”, cioè la capacità di vedere l’invisibile e modellare l’amorfo. Kosoryoku è soprattutto “un prodotto dell’immaginazione basato sulla comprensione realistica di quale sia la forma del mondo imminente e, pragmaticamente, di quali siano le aree del business che si possono conquistare con successo perché si hanno i mezzi per realizzare la visione”. E’ un concetto olistico, più raffinato di vision e mission, che dà rigore metodologico alla creatività, lasciando spazio all’innovazione sociale, politica e culturale. Soprattutto è un concetto che coglie gli elementi salienti del mondo digitale: realtà cangiante, ovvero in continua trasformazione grazie allo scambio di dati e alla realizzazione di nuove connessioni; per immaginare l’invisibile è necessario avere una cultura solida, matura, poliedrica, che sappia mettere in relazioni discipline profondamente diverse, costruendo sintesi inedite e talvolta ardite. Per dare forma all’amorfo è necessario avere audacia, oltre che sogni da abitare e realizzare; è necessaria quella spinta ideale che qualche decennio fa animò i padri fondatori dell’Europa moderna a immaginare prima, realizzare poi l’Europa contemporanea.

Reti e relazioni: governare la complessità

La rivoluzione tecnologica in corso è sempre più concentrata sulla persona (people-centric); utente, consumatore, cittadino, le nostre identità digitali si costruiscono anche attraverso le nostre abitudini di consumo di servizi, informazioni e beni. In un circolo virtuoso (o vizioso, a seconda dei punti di vista), gli stili di fruizione dell’utente influenzano gli stili di erogazione e sviluppo di servizi e prodotti. I tempi sono ancora acerbi per comprendere fino in fondo la portata di questo cambiamento, ma le differenze negli stili di lavoro già presenti tra le generazioni sono un primo, robusto scossone all’organizzazione del mondo così come l’abbiamo concepita nel Novecento.

Più crescono le relazioni, le connessioni tra persone e tra enti, più cresce la complessità in cui operiamo; più un sistema si fa complesso, più onerose diventano gestione, amministrazione e controllo. Per questo considero decentramento, più ancora federalismo, le soluzioni politiche più logiche e razionali per immaginare presente e futuro della nostra Europa. La natura stessa insegna che i sistemi a elevato decentramento offrono maggiori possibilità di sopravvivenza; e a chi obietta che il decentramento non fa che moltiplicare i costi senza migliorare le prestazioni, rispondo che i costi della centralizzazione sono altrettanto impegnativi e che i sistemi centralizzati in un mondo in costante cambiamento soffrono di lentezza e sacrificano uno degli aspetti chiave dei sistemi federati, la capacità di innovare che si basa sulla disponibilità di quante più idee nuove sia possibile rintracciare e collegare.

L’Ict contemporanea è plasmata sui cosiddetti sistemi federati, sistemi in cui la specializzazione dei nodi e la moltiplicazione dei rami della rete, offrono resilienza e versatilità in funzione dei diversi scenari; a garanzia delle prestazioni ci sono metriche che ne consentono misura e monitoraggio. Ed è proprio su questi elementi che dovrebbe concentrarsi l’attenzione della politica: la dimensione dei nodi non è determinante, cruciale è invece la modalità con cui i compiti assegnati vengono svolti, cruciali sono i gradi di libertà con cui i nodi possono organizzare nuove connessioni, rispondendo alle rinnovate esigenze del contesto, cruciale è la frequenza dei nodi nel tessuto socio – politico.

Tradotto: l’Europa degli Stati Nazione di oggi ha un futuro, anche in ottica federalista, oppure è necessario rileggere il tessuto e ipotizzare una riorganizzazione per Popoli e Regioni?  La mia personale convinzione è che il futuro sia nella riorganizzazione profonda del Vecchio Continente, proprio come fossimo di fronte a un sistema tecnologico federato: più dispongo di nodi e rami della rete, più il valore aggiunto della rete cresce, più creo valore dalle reti di relazioni dei vari nodi. Piccolo o grande è comunque bello (per riprendere alcuni degli slogan di moda qualche anno fa) purché sia parte attiva del sistema di reti su cui il mondo oggi è organizzato. Non più dunque gli “Stati Uniti d’Europa” o la Confederazione Europea, bensì la Rete delle Regioni e delle Città Europee, entità di dimensioni variabili, con culture e lingue ben definite, tra loro interconnesse. Di Città Stato e reti di Città ne parlano già da qualche anno, su scala globale, Parag Khanna e Benjamin Barber; ne scrisse a fine anni Novanta, ancora in forma embrionale, anche Gianfranco Miglio.

Le spinte autonomiste e secessioniste, represse anche brutalmente (ciò che sta accadendo in Catalunya per opera del governo di Madrid ne è un esempio, nell’indifferenza e nel silenzio pressoché totale delle Istituzioni centrali europee), troverebbero una composizione razionale e pacifica se si comprendesse il valore delle specificità dei territori e dei Popoli e si avesse l’audacia di pensare a una nuova Europa.

I catalani, popolo caparbio, intelligente, pieno di dignità, pagano oggi sulla loro pelle il prezzo di un sogno che potrebbe essere solo l’anticipazione dell’Europa che verrà, quella dei nostri figli e dei nostri nipoti, cresciuti comunque in un contesto in cui i confini non sono più quelli degli Stati Nazione, ma sono quelli delle comunità di interessi, lavoro, studi che si organizzano nel tempo.

La rete di Regioni e Città per l’Europa del futuro

Autore di “Perché i sindaci dovrebbero governare il mondo” Benjamin Barber ricorda come i sindaci siano pragmatici, qualunque sia la loro estrazione politica, siano sempre e comunque i “nostri vicini di casa”, gente del quartiere per così dire e godano di notevole fiducia. A capo delle “loro” città, sono abituati a interagire con i loro omologhi nel mondo, condividendo buone pratiche e informazioni, costruendo l’inatteso e dando forma all’amorfo, attraverso associazioni e organismi sovranazionali che uniscono diverse città del mondo.

Parag Khanna, nel suo recentissimo testo “La rinascita delle città stato” (2017) riflette tanto sul modello svizzero che su quello di Singapore. Due Paesi tanto distanti quanto vicini per prestazioni nell’agone mondiale (entrambe sono sempre ai vertici delle classifiche di performance), più simili di quanto si possa immaginare per la capacità davvero unica di leggere i tempi attraverso i dati (e le metriche costruite) e trasformare le proprie istituzioni in funzione dei nuovi scenari. Khanna introduce il concetto di info-stato, “collocato all’incrocio fra decentramento dei poteri e uso dei dati”. Il decentramento, osserva Khanna, cambia la scala della governance, porta a unità di autorità più piccole, mentre i dati ne migliorano l’efficienza. Disporre di dati e, soprattutto, saperli leggere e capire significa sviluppare efficienza e, probabilmente, dare corso a processi devolutivi più efficienti. Secondo Khanna “un mondo decentrato di info- Stati è in realtà la via più sicura verso un mondo più autenticamente democratico”; un modello che, pur con declinazioni diverse dalla concezione democratica occidentale, si trova in altre parti del mondo; tra queste la Cina, sempre più reticolo di città – Stato con un forte governo centrale o gli Emirati Arabi Uniti.

Gli studi contemporanei di Barber e Khanna mettono in luce con chiarezza ciò che l’Europa si ostina a non vedere: la forza generatrice della specificità dei Popoli che la abitano. E la Svizzera, al centro geografico del Vecchio Continente, con il suo federalismo plurisecolare, capace di cambiare in sintonia con il contesto, è ancor oggi l’esempio a cui guardare per trarre ispirazione.

La coesione elvetica, per esempio, è l’arte della conciliazione delle diverse esigenze, è la declinazione del principio della collegialità in seno alla società; il “miracolo” elvetico, unico nel suo genere ma non per questo meno riproducibile almeno in alcune delle sue pratiche, sta proprio nella capacità di riconoscere le specificità, mettendole “in rete” e facendo sì che si attivino in funzione degli obiettivi collegialmente definiti. Negli anni Sessanta del secolo scorso Denis de Rougemont scrisse che è tempo di spiegare al mondo la Svizzera autentica, quella della “pratica federalista”, in cui risiedono passato e futuro non solo della Confederazione ma anche dell’avvenire dell’Europa. Parole più che mai attuali, a cui oggi si aggiungono nuovi studi; fatti e parole che potrebbero trasformare il destino di un continente disorientato, alla ricerca di una nuova identità, alla ricerca di un nuovo, comune sogno che unisca le genti d’Europa.

Io, nata quando ancora esistevano confini e monete diverse, diventata europea da giovane, entusiasta esploratrice di un continente in apparenza senza confini, io che ancora guardo con emozione il mio passaporto europeo, credo, credo ancora che un futuro nuovo, fatto di Genti e Regioni, attenda il Vecchio Continente, a cui sento di appartenere fin nelle viscere ogni volta che lo lascio per volare nel mondo.

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