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Le fughe dalla ragione dei cimeli comunisti che vorrebbero sfruttare la pandemia per “cambiare tutto”

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Cambiare tutto, cambiare “i ritmi del vivere” dice il fraticello di Assisi, altrimenti tutto questo ci ricapiterà uguale. Ripensare il capitalismo, dice la consulente governativa, l’economista marxista Mazzuccato, e si capisce anche il non detto. Superare la logica del profitto, dicono i pensatori a gettone, il museo delle cere firmaiole che spreme l’appello in favore dell’autocrate – ma pensa un po’ questi ex giovani formidabili, cresciuti a pane e sovversivismo, che adesso, dai loro bueni rifugi vista Battistero o Colosseo, spiegano come la libertà stia nell’obbedire e non disturbare il manovratore.

Ma cambiare che? È sconcertante, non sorprendente ma lo stesso sconcertante il cinismo dei cimeli comunisti nell’usare una pandemia pur di rilanciare la loro disastrosa visione del mondo e della società: il virus come Nemesi, punizione del determinismo storico o, più terra terra, alla Bergoglio, come qualcosa salito dalla natura vindice che si è ribellata. E non dice che è Dio stesso ad averci falcidiato per suo capriccio, ma il senso è chiaro. Strano Papa, che se telefona a un infermo gli dice: ci rivedremo all’inferno.

Discorsi a pera, profezie in libera uscita, militanza sgangherata. Cambiare cosa? Tornare a dove? Alla società presociale, all’alto Medioevo preindustriale, alla vita media dei 30 anni e alle pandemie vere che decimavano gli abitanti del pianeta, senza rimedi, senza difese, così che solo i più forti sopravvivevano? Tornare alla peste del 1300, alle infinite tragedie colte con la rassegnazione degli inermi? La colpa dell’occidente liberale e capitalista non starebbe nella matrice dittatoriale, nell’arretratezza, nello schiacciamento dei diritti civili e sociali, lavoratori in schiavitù, dissidenti e diversi fatti sparire, nessuna dialettica, nessuna circolazione di idee, nessun progresso culturale e morale, no, sarebbe proprio nell’esatto contrario, nell’essere una democrazia fondata sulla critica, nel suo sapersi preservare rinnovandosi sempre, rimediando bene o male ai propri guasti, alle sue storture. I corsi e ricorsi storici! Par di sentire i vaneggiamenti di quaranta, cinquant’anni fa, il sostegno malcelato ai movimenti terroristici che, in piena fase di robotizzazione, di riconversione tecnologica che metteva fuori gioco la classe operaia, si rifugiavano nel delirio onirico delle società cambogiane, vietnamite o cubane di cui sapevano niente.

Ripensare, superarsi, cancellarsi. Queste le parole d’ordine del post politicamente corretto figlio del coronavirus. Ma nessuno con l’onestà intellettuale di dire l’unica cosa che andrebbe detta: ripensarsi per recuperare il senso della propria identità, della storia stratificata. Ammonisce il cardinale Robert Sarah, in fama di reazionario:

“Così come un albero, se gli recidi le radici, muore, allo stesso modo l’Occidente muore. Perché si è dimenticato delle sue radici; della sua cultura, della sua arte, della sua filosofia, della sua fede, delle sue conquiste economiche e dunque sociali”.

E si potrebbe aggiungere: della salvaguardia delle sue identità, diversificate, autonome, cooperanti. L’altra grande menzogna del falso dibattito intellettuale in tempi di Covid-19 sta proprio in questo, che la pandemia avrebbe sconfessato i sovranismi: è l’esatto contrario, si tornano a difendere confini non solo nazionali quanto addirittura locali, regionali, come unica strategia razionale alla diffusione del contagio. Di cose da ripensare ce ne sono. Ma nel senso di recuperarle, in un modo diverso, più profondo, più onesto, ma recuperarle. Non gettarle via col pretesto di una palingenesi. A partire dal silenzio, dal raccoglimento nel quale rendere conto delle nostre scelte, personali, individuali e quindi collettive. Invece i nostalgici da divano insistono col mantra esorcistico: uscire dalla logica del profitto.

In questo gioco all’equivoco, piuttosto sconcio, piuttosto cialtrone, si distinguono i cantanti Bellaciao da primo maggio: tutti uniti nel coro anticapitalista, però allo stesso tempo tutti a pietire fondi, provvidenze, rimedi. Tutti, anche quelli dalla villa con piscina di Los Angeles. Ma ha scritto giustamente sul sito rockol.it Franco Zanetti: va bene tutto, ma dovete tornare a creare; scrivete canzoni nuove, incidetele, fatele girare, smuovete le acque della pubblicità, del marketing, perché è l’unica strada e forse per questa strada troveremo tutti un nuovo modo di stare al mondo.

Se bisogna rinnegare la logica del profitto, come mai tutti stanno a chiedere più soldi, più sostegno ai governi, alle istituzioni sovranazionali? Che discutiamo a fare di fondi, di aiuti, di Mes, di bond, di “manovre poderose” che non arrivano essendo il Paese congelato? Da dove salirebbe la possibilità di reagire, di salvarci se non dal profitto figlio della volontà di produrre, di scambiare, di agire? La ricchezza la crea chi realizza, chi opera: non la burocrazia degli stati, non le acconciature improbabili delle Van Der Leyen o delle Lagarde. Ma a quanto pare è proprio questo che si vuol consegnare alla damnatio memoriae. “Cambiare tutto, cambiare i ritmi del vivere, altrimenti la maledizione tornerà a colpirci”. Discorso fratesco, storicismo camuffato da fatalismo mistico. Cambiare i ritmi del vivere? Ripensare il capitalismo? Fino a che punto? Sarebbe abbastanza accettabile una koiné in cui si raccolgono pomodori e si tira l’aratro a spalla, tutti in bicicletta? Ma allora che ci scanniamo a fare sulla scienza, sulla smania delle sue conquiste, sul vaccino? Che si ciancia a fare di nuovi modelli di lavoro fondati sull’operatività a distanza, sulle tecnologie informatiche se l’unica conclusione logica, in un’ottica così paleosociale, può essere solo quella di distruggerli, come voleva un tempo Beppe Grillo? E i seicentomila raccoglitori di ortaggi che il ministro Bellanova vuol regolarizzare, poi, come li mantieni? Con una parte di ortaggi, senza la necessaria ridefinizione del comparto agricolo? E un giorno non sarà da “ripensare” pure la bicicletta, quando una Greta più gretina ancora verrà a spiegarci che non è costruita con materiali non eco-compatibili dunque è inaccettabile, simbolo del capitalismo inquinante?

In tutto questo delirare di non ricette, di non soluzioni, in tutto questo rifugiarsi nelle fughe dalla ragione, nei vortici delle visioni psichedelico-petalose, una cosa sfugge, ma decisiva. Il coronavirus, fino a prova contraria, non lo ha escogitato e liberato nell’aria una famigerata società postcapitalista, ma l’ultima immane dittatura fondata su un regime comunista. La Cina.

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