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Le scuse dell’arcivescovo Welby per il ruolo della Chiesa Anglicana nelle residential school canadesi

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L’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, si trova in questi giorni in Canada, nell’ambito di una delle ultime e più importanti visite pastorali prima della convocazione della Conferenza di Lambeth in estate. In questo contesto, ha compiuto un gesto dal grande valore simbolico, chiedendo perdono per il coinvolgimento della Chiesa anglicana in quello che ha definito il “terribile crimine” delle residential school, e per tutti i “gravi peccati” commessi dalla Chiesa d’Inghilterra ai danni dei popoli indigeni del Canada.

Prima di spiegare che cosa siano state, queste istituzioni dal nome quasi rassicurante, le residential school, sarà bene inquadrare la portata di quanto avvenuto, partendo da una mera considerazione temporale: l’arcivescovo aveva in programma di restare per cinque giorni in Canada, durante i quali doveva incontrare le massime cariche pubbliche e non solo. Bene, ha dedicato l’intero fine settimana appena trascorso ai rapporti con le comunità indigene, visitando riserve, incontrando i leader nativi, e soprattutto ascoltando i racconti di chi è sopravvissuto a queste scuole residenziali.

Le residential school rappresentano in effetti una delle pagine più nere della storia canadese, e negli ultimi anni si sono susseguiti diversi scandali che hanno scosso l’opinione pubblica e l’autocoscienza di un Paese che si è sempre pregiato di considerarsi molto avanzato, quanto a diritti, e di non avere alle proprie spalle una storia di sangue e sopraffazione come quella che il vicino americano deve alla schiavitù. Credo molti di voi ricorderanno, anche solo vagamente, che proprio un anno fa, alla fine della primavera, vi è stata un’ondata di indignazione e, in alcuni casi, di violenza fisica verso luoghi di culto cattolici in tutto il Paese, in seguito alla scoperta dei resti di diverse centinaia di bambini seppelliti in fosse comuni nella totale illegalità presso una di queste scuole, gestita dall’Ordine degli Oblati a Kamloos, in British Columbia.

In effetti, il Canada non ha un passato schiavista, anche per via della natura fisica del suo territorio, che non si presta praticamente mai a sostenere un’economia di piantagione, e storicamente si è distinto per il soccorso offerto agli schiavi neri che fuggivano dagli Stati Uniti nella prima metà dell’Ottocento. Tuttavia, si è reso anch’esso protagonista di razzismo sistematico, ai danni degli asiatici —che non potevano votare fino agli anni ’50, e soprattutto delle numerose comunità indigene. Tutte: sia gli Inuit (le popolazioni eschimesi dell’artico), che gli appartenenti alle First Nations (i nativi americani di diverse famiglie linguistiche non-inuit), che i cosiddetti Métis (membri di una popolazione dagli usi e linguaggio peculiari, con ascendenza mista indiana e francese e distintasi come gruppo autonomo a partire dalla metà del Settecento). Tutte queste popolazioni non hanno goduto di alcun diritto civile o politico fino alla fine degli anni ’60, e hanno a lungo vissuto ai margini della società —finché le cose non sono peggiorate.

Rivolgendosi ai sopravvissuti ancora in vita e agli anziani della comunità indigena di Prince Albert, domenica scorsa, Welby si è detto “profondamente dispiaciuto che la Chiesa [Anglicana] abbia preso parte al tentativo —tentativo fallito, grazie alla straordinaria capacità di resistenza” e all’attaccamento dei popoli nativi alle loro identità— “di disumanizzare e abusare di coloro che avremmo dovuto abbracciare come fratelli e sorelle”. Già, la principale fonte di preoccupazione per il resto della società canadese, quando si trattava di nativi, era proprio la loro riottosità ad abbandonare la propria identità, sul piano linguistico come culturale, fino nei dettagli esteriori come l’abbigliamento.

A lungo, le istituzioni locali avevano cercato di “civilizzarli” ma i tentativi erano stati infruttuosi, dato che una volta apprese le nozioni che ritenevano utili, come la lettura e la scrittura, gli indigeni non volevano andare oltre e adottare uno “stile di vita bianco”. Si diffuse quindi, sulla scia dello zelo civilizzatore dell’età vittoriana, un desiderio di procedere alla loro definitiva assimilazione, crescente man mano che i territorî nordoccidentali venivano integrati nella nazione. Gli sforzi trovarono un culmine nell’azione del primo ministro Mackenzie Bowel, che nel 1895 stabilì il finanziamento federale di un sistema di scuole residenziali, che da quel momento in avanti sarebbe stato per le bambine e i bambini nativi obbligatorio frequentare, venendo così completamente distaccati dalle famiglie e dal contesto in cui erano cresciuti.

“Mi sento più che umiliato”, ha aggiunto l’arcivescovo, “dal fatto che siate disposti anche solo a tentare di ascoltare queste mie scuse, e a permetterci di procedere insieme a voi sul lungo cammino di rinnovamento e riconciliazione”. Nella giornata di sabato, Welby ha visitato la James Smith Cree Nation, riserva del popolo Cree in Saskatchewan: qui, ha incontrato i capi tribali, ha ascoltato altre storie di sopravvissuti alla locale residential school, e si è unito a un Gospel Jamboree —un’espressione indigena di fede che ha permesso alle comunità di mantenere un tramite con la loro spiritualità del passato all’interno di un contesto cristiano, nei lunghi decenni durante i quali ogni pratica tradizionale era vietata.

Ora, non dobbiamo pensare che Welby abbia incontrato solo persone molto anziane: in effetti, la legge che rendeva obbligatoria la frequenza è rimasta in vigore fino al 1947, ma anche dopo le autorità locali hanno esercitato importanti pressioni sulle comunità indigene perché vi inviassero i propri figli, e, specialmente all’ovest, hanno continuato a operare molto a lungo: l’ultima ha chiuso i battenti solo nel 1997.

Ma cosa succedeva, di preciso, in queste strutture, quale era la ratio dietro il modo in cui venivano gestite, quale prezzo è stato effettivamente pagato dai nativi? Possiamo partire dalle parole di Welby, che ha parlato di abuso sistematico che ha costituito “un crimine terribile”, addirittura un “pezzo d’inferno” che è “stato costruito sulla terra, con la partecipazione attiva della Chiesa e in nome della Chiesa. Sempre secondo le parole dell’arcivescovo, l’idea che ha guidato l’intero progetto è stata quella di “costruire deliberatamente, consapevolmente, stupidamente —perché il male è stupido— l’inferno e metterci i bambini”.  

In pratica, per un secolo si è pensato che il modo migliore per gestire la “questione indigena” fosse quello di strappare i bambini alle loro famiglie, per assimilarli nella cultura dominante e distruggere interamente le loro identità. Qualcosa di molto simile è stato fatto in Australia con gli aborigeni, e in alcuni Stati Usa sempre coi nativi americani, ma in nessuno di questi casi il sistema ha raggiunto una dimensione e una longevità paragonabile al caso canadese.

La gestione pratica delle scuole, tranne rari casi, era assegnata alle autorità religiose, secondo una divisione che rispettava i rapporti di forza demografici tra le varie confessioni —aspetto fondamentale in un Paese che si reggeva su delicati equilibri tra diverse comunità: il maggior numero di scuole era gestito dalla Chiesa Cattolica (65), seguiva poi quella Anglicana (40), mentre numeri minori erano quelli di metodisti (12), presbiteriani (8), battisti (1) e congregazionalisti (1) —8 scuole erano gestite in modo multidenominazionale e 6 erano laiche, operate direttamente dallo stato.

Le pratiche adoperate dal personale erano particolarmente dure, come emerge dai racconti che, a partire dalla fine degli anni ’80, molti sopravvissuti hanno cercato di far conoscere all’opinione pubblica canadese, che a lungo ha preferito dimenticare, considerare queste scuole una sorta di piccolo male necessario per ottenere il bene, dei nativi in primis. Sono storie di maltrattamenti sistematici, di umiliazioni fisiche e psicologiche, di violenze continue, punizioni corporali somministrate ogni volta che i bambini venivano sorpresi a dire anche solo una parola nelle proprie lingue madri —solo per fare degli esempi. Ma anche di abusi fisici e violenze sessuali, che raggiungevano un livello spaventosamente alto negli istituti gestiti dalla Chiesa Cattolica, e in particolare dal già citato Ordine dei Missionari Oblati di Maria Immacolata. È molto difficile reperire statistiche affidabili, ma sappiamo per certo che le gravidanze dovute a tali stupri, e i conseguenti aborti clandestini o infanticidi praticati nelle strutture non erano un fenomeno sporadico.

L’impatto di tutto questo sulle comunità indigene è stato tremendo, e le ha condotte sull’orlo della perdita totale della loro cultura, oltre ad aver contribuito alla diffusione di fenomeni di patologie psicologiche e conseguente abuso di sostanze tra le vittime. Insomma, non solo non è stato minimamente raggiunto il supposto scopo di assimilare i nativi, ma è stata inflitta loro un’enorme sofferenza che ne ha gravemente peggiorato le condizioni di vita.

Fino al 1969, anche la Chiesa Anglicana del Canada ha gestito le sue scuole, prima di sospendere la partecipazione al progetto. Per alcuni anni, tuttavia, non sono arrivate ammissioni di colpa. Lentamente, tutte le confessioni coinvolte hanno proceduto: nel 1986, la prima grande istituzione ad ammettere le proprie colpe è stata la United Church of Canada, seguita nel 1991 dalla Chiesa Cattolica —che tuttavia ha continuato a operare le proprie scuole per altri sei anni. Nel 1993, l’arcivescovo Michael Peers ha ufficialmente presentato delle scuse alle comunità indigene a nome della Anglican Church of Canada, scuse ripetute nel 2010 dall’arcivescovo Fred Hiltz, che ha parlato di una “vergogna che ancora ci portiamo addosso come Chiesa e come popolo”. Ad aprile di quest’anno, poi, dopo numerosi appelli da parte del governo canadese, Papa Francesco ha ricevuto una delazione di Métis, First Nations e Inuit. Adesso, l’Arcivescovo di Canterbury, massima guida spirituale della Comunione Anglicana, è giunto nel Paese per rimarcare, e per sostenere il percorso intrapreso dalla Chiesa del Canada, che prevede una aperta politica di indagine su ciò che è avvenuto nelle scuole, di maggiore coinvolgimento delle comunità indigene nella vita e nelle gerarchie della Chiesa, e di impegno, anche economico, da parte della stessa per sostenere le comunità e un loro sviluppo.

Certo, la partecipazione delle Chiese in modo attivo è tremenda, ma sorge spontanea anche un’altra domanda: in che modo l’autorità statale, che dell’iniziativa era stata ideatrice e promotrice, l’ha seguita, nel corso dei decenni? Le scuole non sono state oggetto di ispezioni regolari, non sono mai state supervisionate da personale professionale, nessun partito ha a lungo sollevato la minima critica nelle aule federali e provinciali, i giornali per anni non hanno denunciato le crudeltà che avvenivano negli istituti. Del resto, ciò che sembrava stare a cuore alla società canadese, in quei decenni, era mettersi la coscienza a posto: veniva fatto il possibile per assimilare gli indigeni, e questo bastava. Ammesso e non concesso che fosse effettivamente questo il loro interesse, il fatto che ciò non avvenisse non ha a lungo destato preoccupazione: una volta ottenuta la libertà dalle residential school, i giovani tornavano all’isolamento nelle riserve. In un contesto di grande povertà, si ritrovavano quasi estranei anche lì: dopo anni trascorsi a subire violenze per dimenticare la propria identità, era difficile per loro sentirsi pienamente a casa in ognuno dei due mondi che formavano la società canadese.

È stata una tragedia che ha segnato molte generazioni. Le culture native sono state pericolosamente vicine all’estinzione: lo scopo dichiarato dell’intero sistema era, di nuovo dalle parole di Welby, “distruggere la memoria, separare le generazioni in modo da far perdere ogni identità”. È stata una tragedia non solo per le difficoltà incontrate dai sopravvissuti, ma anche per l’enorme numero di vittime.

È impossibile fare una stima accurata. Possiamo basarci sulle poche ricerche sporadicamente commissionate dalle autorità: pur con la consapevolezza che non possano essere applicate al quadro generale, mostrano dati spaventosi. Nel primo decennio del XX secolo, almeno la metà dei bambini ospitati nelle scuole delle province occidentali era affetta da tubercolosi, per via delle condizioni malsane e della pressoché assoluta mancanza di cure mediche. Nei primi 15 anni dell’iniziativa, la mortalità nel Canada occidentale andava dal 30 al 60 per cento di una classe nell’arco dei cinque anni del ciclo di studi: in altre parole, ogni anno moriva dal 6 al 12 per cento degli alunni, e in media solo la metà di loro viveva abbastanza da raggiungere la fine della scuola. Non possiamo fornire un numero complessivo, perché quasi mai negli istituti sono stati tenuti registri accurati, i quelli spesso sono stati distrutti al momento della chiusura —per non parlare dei neonati abortiti o uccisi appena dopo la nascita. Tuttavia, le stime più accurate variano dalle 3 mila a oltre le 30 mila vittime.  

Si tratta di numeri enormi, se pensiamo che, all’ultimo censimento del 2016, il numero complessivo dei membri dei tre gruppi era di 1.673.780 (977.230 First Nations, 587.545 Métis e 65.025 Inuit). Numeri che hanno lasciato un impatto importante e ferite aperte. Welby si dice consapevole che quello che gli indigeni e la società canadese nel suo complesso hanno davanti a sé “non sarà un viaggio facile o veloce”, ma per parte sua si è impegnato a garantire la volontà della Chiesa Anglicana di farlo, cercando “di abbinare l’azione alle parole”, attraverso diversi progetti volti ad aumentare l’integrazione dei nativi nella società e nelle comunità religiose, grazie al lavoro dell’Anglican Indigenous Network.

Per quanto riguarda il quadro generale, le Chiese coinvolte hanno da anni fondato la Aboriginal Rights Coalition, che si impegna per sostenere i diritti dei nativi, ma lo sforzo economico è rimasto limitato: solo la Chiesa Anglicana ha reso disponibili dei rendiconto, che parlano di 8 milioni di dollari spesi in 705 piccoli progetti tra 1992 e 2007. Quanto al governo, gli sforzi operati tramite iniziative spontanee sono stati, in proporzione, ancora più limitati: tra il 1998 e il 2014 è stata operativa la Aboriginal Healing Foundation, che ha distribuito meno di 400 milioni di dollari in vari progetti —una cifra irrisoria per il budget federale— senza riuscire a ottenere risultati di particolare rilievo nell’integrazione.

Sembra strano raccontare questa storia, dal momento che il Canada di Justin Trudeau si pone ormai da anni come alfiere delle politiche di apertura e di integrazione di culture e identità diverse, eppure la sorte dei popoli nativi pare ancora oggi occupare un posto di secondo piano nel dibattito politico nazionale. In qualche modo, le nazioni indigene e le loro culture sembrano avere un fascino minore, per chi propone con forza il multiculturalismo come unica via, forse per un qualche senso di superiorità radicato nelle coscienze di un Paese che si è fondato sulla dichiarata inferiorità di tali popolazioni, o forse, più prosaicamente, perché i nativi americani si mostrano di solito piuttosto restii a prestarsi a operazioni di marketing politico o perché sono poco numerosi e quindi poco appetibili come bacino di voti. Sta di fatto che, fino all’anno scorso e alla autentica doccia fredda della scoperta delle fosse comuni, si parlava davvero poco di questa storia, e le poche azioni veramente importanti sono arrivate tramite imposizioni giudiziarie.

Nel 2005, infatti, la Corte Suprema del Canada ha riconosciuto ai sopravvissuti (all’epoca ben 86.000) il diritto di costituirsi in una class action contro il governo, ritenuto responsabile ultimo di tutto quanto accaduto: aveva dato il via all’iniziativa, l’aveva finanziata, era verosimilmente a conoscenza dei metodi con cui veniva condotta, non ha mai controllato né punito. Nel corso del decennio successivo, le cause si sono succedute, e a ogni sopravvissuto sono stati riconosciuti 10 mila dollari di risarcimento per il primo anno di “studio” e 3 mila per ogni anno successivo, oltre a 250 mila dollari per i casi in cui sia possibile provare in qualche modo abusi e violenze di natura sessuale subiti. Diverse agenzie federali sono state incaricate di procedere a vagliare i casi e versare i pagamenti: una per i casi “di patteggiamento”, in cui sopravvissuti molto anziani hanno la possibilità di ricevere un pagamento forfettario, ha pagato 1,62 miliardi di dollari a 78.750 sopravvissuti (al 2014), mentre la principale ha versato 3,1 miliardi a 36.538 aventi diritto (al 2016).

Ancora molto resta da fare, anzi, quasi tutto, ma almeno aver riconosciuto lo status di vittime aventi diritto a un risarcimento e aver versato una somma —per quanto minima, perché capite che una media di 50 mila dollari per una vita seriamente rovinata da abusi e maltrattamenti sono ben poca cosa— è un inizio importante. Adesso, sarebbe il caso che le istituzioni religiose coinvolte, prima fra tutte la Chiesa Cattolica, procedessero a una reale e concreta apertura, riconoscendo la vera natura dei propri crimini. In effetti, l’Ordine degli Oblati si rifiuta di rilasciare qualsiasi dato o perfino di ammettere l’esistenza di casi sistematici di stupri, gravidanze e aborti clandestini nelle scuole da loro gestite, anche dopo che gli eventi della scorsa estate hanno portato un’evidenza tristemente concreta.

L’opinione pubblica canadese si è improvvisamente risvegliata da un sogno, quello di essere il Paese più aperto, tollerante e accogliente del mondo e di non avere alcuna macchia nel proprio passato: adesso, rischia di reagire in modo anche violento, mentre si chiede quante altre fosse comuni colme dei resti di bambini nati per violenza e morti senza nome siano nascoste dietro alle ex scuole e alle chiese di campagna del Canada. 

“Spero che quello che ho detto, più in modo così inadeguato, possa essere l’inizio di un confronto più profondo”, ha detto l’arcivescovo nel suo ultimo incontro col clero anglicano di origine indiana, “fatto di parole e di azioni”. Sì, ha concluso Welby, che ieri ha terminato la sua visita e ha fatto ritorno a Londra: “dobbiamo scusarci, ma non dobbiamo fermarci lì”. Le parole sono importanti, certo, ma in questi casi soprattutto è con le azioni che si deve dimostrare la volontà di riparare ai torti e di volere un cambiamento autentico per il futuro.