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Le sfide di potere che ha di fronte chiamano Salvini a una prova di maturità: da capopopolo a capo di governo

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Mai visto un Paese più scalognato e una borghesia benpensante più iellata di quella italiana: sempre sotto il tallone del dittatore di turno, da Mussolini a Salvini, il leghista, lo spargitore d’odio, come un tempo si sarebbe detto “il passator cortese” per dire di personaggio famigerato e un po’ mitologico. Strana tirannide, però, quella in cui non c’è giorno che qualcuno non impicchi il manichino del tiranno o non lo affoghi o non gli dia fuoco tra girotondi festosi di ragazzi. Dalle parti di Kim o, più modestamente, di Erdogan, non succede o se succede va a finire male. Ma siamo in Italia e per il momento tocca a Salvini la graticola, dalla quale lui si difende a furor di twittini e filmatini, strategia finora pagante per quanto a rischio di contraccolpi a volte micidiali. Come quando, incauto, si fa vedere avvinghiato a un capo ultras milanese e dopo pochi giorni un altro, di fede opposta, cade in una guerriglia da stadio. Certo, non è colpa di Salvini la trasmigrazione della politica videns, dal palazzo alla televisione alla rete; non dipende da lui l’essere il capolinea, pro tempore, di una mutazione inaugurata dal craxismo che si sottraeva alle tetraggini comuniste, quindi l’accelerazione fisiologica impressa da Berlusconi, che giocava in casa, e che condizionerà il presepe televisivo, risotti populisti dalemiani, lampade abbronzanti finiane, chachemirini bertinottiani, fino all’avvento dei social che hanno di nuovo rimescolato le carte, hanno fagocitato la politica rendendola una faccenda di cinguettii e di microdirette.

Salvini di social ferisce e perisce. Mangia una fetta di pane e Nutella e lo accusano di tutto, dall’eruttare dell’Etna alle faide di ‘ndrangheta fino a quelle da stadio (se ci scappa il morto e Salvini è all’opposizione, la colpa, misteriosamente, è sua; se si ritrova ministro dell’interno, il cadavere è sempre colpa sua). Come se gli altri fossero diversi: il Pd, per dire, vanta dei kamikaze situazionisti come questa incredibile Alessia Morani, sciagurata gaffeur seriale senza l’attenuante dell’empatia. Chi lo vive da vicino, Salvini, riferisce di un quarantacinquenne fuori forma, percettibilmente stanco, improvvisamente invecchiato, circondato dalla solita corte dei miracoli, di zelanti, di aedi, insomma: l’affollata solitudine del potere. E lasciagliela mangiare una pizza con la cipolla.

Senonché, il problema non è la Nutella o la bresaola, è che a lungo andare il sovranismo culinario diventa indigesto. Salvini non potrà continuare su questa strada, per evidenti e ottime ragioni. È il ministro di polizia, guida il primo partito del Paese nonché il più stagionato, è il primo ministro in pectore: molti disinformati, ma anche quelli più che informati, non esitano e identificare nella sua barba padana il vero capo della coalizione. A questo punto il Matteo verde si ritrova, piaccia o non piaccia, in un ruolo da statista. E gli statisti a un certo momento debbono abbandonare la scapigliatura giovanilistica e pensare più in grande. Salvini è attaccato, in modo spesso meschino; è accusato di tutto, in modo anche scorretto e sciacallesco: il potere implica di questi contrappassi, ed è comprensibile che lui o chi per lui contrattacchi ribattendo colpo su colpo. Ma non può, da uomo di governo, continuare a dividere l’orizzonte in “amici” cui dedicare la merenda e avversari cui riservare bacini sarcastici. Alla fine, anche se sul piano umano costa, devi passarci sopra, evitare, porti obiettivi più larghi; “di ampio respiro” come si diceva in tempi presocial. In una parola, gli tocca diventare più solenne, più distaccato, più uomo di governo nella solitudine rissosa del potere.

Dite che significherebbe abbandonare quel populismo ruspante che lo ha scaravantato dal 4 al 36 per cento in poche stagioni? Ebbene, sia. Perché mantenere intatto quel populismo può, precipitosamente, farti ruzzolare giù per la china inversa. Salvini ha di fronte sfide di potere, non di condominio: Palazzo Chigi, l’Europa riformata, un work in progress di alleanze internazionali, la tenuta sul nucleo forte della sua azione, il contenimento di una immigrazione illegale sempre pronta a rientrare da mille finestre. Non può reggere a tutto questo se non adotta un approccio più pacato, possibilista; anche duro, ma con una sorta di comprensione diversa, di profondità diversa che non può esaurirsi nelle felpe della polizia, nelle fette di pane e crema, nell’“amici io vado avanti”. La politica nel tempo dei social è una faccenda impalpabile e frenetica, ma se Salvini non sviluppa adesso la mutazione da capopopolo in capo di governo, da leader di partito in statista, non dura. Non conoscerà l’Uomo Ragno, non saprà che “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, ma alla fine è proprio di questo che si tratta: il potere logora indifferentemente chi non ce l’ha e chi ce l’ha, ma quello che consuma più di tutto è non sapere come crescerci dentro.

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