Dunque, la Commissione europea ha un nuovo presidente. On. Von der Leyen, non conoscendola, come quasi tutti qui in Italia, da cittadino europeo desidero fermamente aprirle la più ampia linea di credito politico e da europeista convinto non auspico altro che Lei possa ben operare così da rilanciare l’ideale di un’Europa vicina ai popoli, saldando quel solco profondo che purtroppo nel tempo si è aperto anche per effetto delle politiche dei Suoi predecessori.
Mi occupo di innovazione e di digitale, sono un tecnico (non un tecnocrate) e non faccio politica (di professione) pur portandone un profondo rispetto. Spero che queste note – se mai avrà modo di leggerle – possano davvero aiutarla a non ripercorrere alcuni errori del passato, radicati sul triste detto nella mia lingua del “predicare bene e razzolare male”. Errori, a mio modesto parere, non casuali ma strutturali, che affondano in almeno vent’anni di politiche europee spesso inconcludenti sull’innovazione e sul digitale. Correva l’anno 2000 quando, presidente della Commissione il mio connazionale prof. Romano Prodi promuoveva l’Agenda di Lisbona con l’obiettivo strategico di fare dell’Europa unita “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale.” La data di riferimento per raggiungere questo lungimirante obiettivo di una economia “vibrante” basata sulla conoscenza (per dirlo con l’enfasi del tempo), e per conseguire la modernizzazione del modello sociale europeo era fissata al 2010 quando, secondo il Suo autorevole predecessore, i cittadini europei avrebbero visto i frutti di portentose politiche sociali coniugate alla costruzione di un’economia dell’innovazione competitiva con quelle di Stati Uniti e Giappone.
Traspare una fiducia massima, non scevra da uno strano connubio fra presunzione e spirito naïve. Già prima del 2010, tuttavia, la Commissione che Lei ora guiderà mette la sordina al piano di Lisbona constatatone l’insuccesso, che nessuno può certo imputare alla crisi finanziaria del 2008 che raggiungerà l’Europa come crisi di sistema solo nel 2012. Non una parola di autocritica costruttiva sembra di potere ricordare all’epoca. A distanza di tempo, però, penso si possa convenire che una causa centrale del fallimento sia stato l’insufficiente livello di finanziamento della ricerca e dell’innovazione in Europa. Ma non solo di quello si è trattato: non si è liberata a sufficienza l’economia e l’imprenditorialità:
- Da un lato, lungo tutto l’arco del piano di Lisbona nonostante il proclamato impegno l’Europa ha continuato a soffrire di ritardi significativi nella R&S rispetto agli Stati Uniti, come dimostrano alcuni dati pubblici dell’epoca. Nel 1999 il GERD (spesa lorda in R&S) negli Stati Uniti era di circa 247 miliardi di dollari, mentre nella Ue di 171 miliardi. La differenza è rimasta sostanzialmente costante negli anni 2000 e nel 2009 la spesa lorda era rispettivamente di 400 e 300 miliardi. Pertanto, in termini assoluti, la spesa della Ue-27 nel 2009 era ancora pari a circa il 75 per cento di quella degli Stati Uniti. Rispetto alla popolazione di quell’anno, la spesa pro-capite per la RS è stata di 1.300 dollari negli Stati Uniti contro soli 600 nella Ue-27 – con l’enorme divario pro-capite di 2,2 volte. L’economia “vibrante” del prof. Prodi vibrava poco, Signora Presidente Von der Leyen: in verità, nel corso del decennio 2000 il rapporto GERD/Pil in Europa è rimasto stagnante al 2 per cento, mentre è aumentato sia negli Stati Uniti che in Giappone (per non parlare della Cina, allora ancora in ritardo ma con un tasso di crescita eccezionale di cui oggi scontiamo tutti i problemi “globali” con nostre pesanti responsabilità su cui non mi soffermo per brevità).
- Dall’altro, l’Unione nel frattempo proseguiva col divenire una delle aree di mercato più “vibrantemente” burocratizzate al mondo, imponendo regole incomprensibili e impopolari, destinate a disincentivare l’imprenditorialità e la creatività, in contrasto con la libertà di mercato vigente sulla carta (non si perda, se può, On.le presidente, il recente acuto intervento del prof. Giulio Tremonti e il suo garbato accenno – dal sapore di “parte per il tutto” – alla strabiliante regola europea sui passaporti di cani, gatti e furetti!).
Accantonata perciò in punta di piedi l’Agenda di Lisbona, la Ue sembra smettere di lanciare messaggi roboanti su innovazione e ricerca ma, nel 2010, crede di trovare l’ancora di salvezza nella cosiddetta Agenda Digitale. Si dà il caso che nel 2009 la Banca Mondiale avesse pubblicato i risultati di alcune ricerche svolte su 120 Paesi che hanno mostrato come ogni aumento del 10 per cento di penetrazione della banda larga produca una crescita di 1,4 e 1,2 percento del Pil, rispettivamente nei Paesi a medio reddito e nei Paesi più sviluppati, fra cui naturalmente la nostra amata Europa.
E qui, di già immemori delle recenti brucianti sconfitte (da nessuno sanzionate né, quanto meno, censurate), parte il nuovo caravanserraglio europeo sull’innovazione, ora “digitale”. Proprio nel 2010, all’insediamento della neonata seconda Commissione Barroso il neo-nominato commissario per l’agenda digitale, la signora Neelie Kroes, lancia dunque con “vibrante” roboanza la DAE (Digital Agenda for Europe), sfidante strategia di policy europea, che includeva fra gli altri alcuni obiettivi infrastrutturali da conseguire nel decennio incombente. L’impostazione al problema della migrazione delle tradizionali infrastrutture di rete di accesso verso la c.d. “ultrabroadband”, necessaria per favorire la crescita sostenuta del Pil di cui si è detto, fu confezionata frettolosamente (si sa i commissari hanno pochi giorni per presentarsi al Parlamento) e senza i dovuti approfondimenti. Ben presto, molto autorevolmente, fu criticata da più parti con argomentazioni varie: l’esclusivo concentrare l’attenzione sul verso di trasmissione dati da rete a cliente, l’indeterminazione della stessa definizione di velocità di accesso (media, di picco, altro), la totale assenza di indicazioni o procedure per la sua misura, il riferimento a obiettivi vaghi e tecnicamente troppo sfidanti persino sulla carta, come quello di una copertura universale del territorio europeo a 30 Mbps, e così via. Tutto questo senza trascurare che, in dipendenza delle possibili interpretazioni degli obiettivi di policy stabiliti, solo in seguito – e non prima come sarebbe stato doveroso – furono calcolati costi infrastrutturali generalmente alti se non addirittura insostenibili (in particolare nelle aree a fallimento di mercato e in quelle urbane periferiche) nella finestra decennale stabilita, specie perché la Ue affidava per lo più l’implementazione ad un mercato da tempo liberalizzato e, dunque, al finanziamento dei privati che per principio vanno ove è più verosimile attendersi il ritorno degli investimenti. Fra i primi dubbiosi dell’approccio DAE si ricorda la stessa Banca europea per gli investimenti (BEI) che già nel 2011 stimò per la Ue, a seconda dei possibili scenari di investimento analizzati, un onere compreso fra 73 e 221 miliardi di euro: inoltre, ciò che più avrebbe dovuto preoccupare le istituzioni europee era la totale mancanza di visibilità sui potenziali ritorni nel decennio 2010-2019 e l’incertezza su come incentivare la domanda di servizi.
Dettagli: non proprio. La policy DAE era stata lanciata dunque “al buio”, con lo stesso approccio fideistico del prof. Prodi, al più sulla base di benchmark internazionali non sempre pertinenti, e – manco a dirlo – si è rivelata sostanzialmente errata: prevedibile, si dirà, non si era fatto tesoro dell’esperienza passata. Curiosamente, persino la BEI sbagliò i conti dei costi, ovviamente in difetto: in seguito proprio la Sua Germania, Signora Presidente, stimò in circa 70 miliardi di euro gli investimenti necessari per la copertura universale in fibra ottica del solo Suo Paese (che, ove scalati all’intero territorio dell’Unione, più che raddoppiano la stima più pessimistica della BEI). Dunque, Deutsche Telekom trascurando saggiamente le periodiche censure di certa parte della politica tedesca ripiegò su tecnologie performanti ma più economiche della fibra ottica fino a casa (il benchmark nel 2010 della Signora Kroes e dei suoi consulenti lobbysti). È tempo ormai di fare chiarezza per mettere meglio a frutto i cospicui investimenti già fatti, in ottica di beneficio sia per i consumatori che per gli operatori di rete, razionalizzando gli interventi e facendo tesoro delle continue innovazioni di un settore, quello sì “vibrante”, come sono le telecomunicazioni, liberando di più gli operatori europei dai lacci e lacciuoli dell’antitrust europea perché possano meglio competere sul mercato globale con i giganti cinesi e americani: le soluzioni tecniche ci sono e ben si conoscono per garantire un nuovo equilibrio di regole promuovendo investimenti oculati.
La politica è disposta ad ascoltare? Una nuova impostazione sulle regole, rigorosa ma non soffocante, lungimirante ma realista e informata, favorirebbe la crescita dell’ecosistema di internet in condizioni di sostenibilità per il sistema degli operatori europei. Nel decennio trascorso, infatti, le tecnologie sono molto mutate e di pari passo anche le conoscenze sulle architetture di rete che consentono di avere oggi chiara contezza del contesto tecnico in cui conviene muoversi. La regolamentazione europea, viceversa, nonostante uno sfrenato attivismo, non sembra avere tenuto bene il passo, ancora imprigionata com’è nelle medesime vision velleitarie dei tempi dei presidenti Prodi e Barroso.
Sarebbe un grande risultato coniugare un po’ di sano pragmatismo, ridimensionando piani velleitari, con la contestuale promozione di ciò che è davvero utile per le imprese e i consumatori europei. Se l’utopia dell’“economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo” ha tristemente fallito, quanto meno miriamo ad un’economia che riprende a camminare sulle gambe dell’innovazione liberando le imprese, specie quelle dei giovani, con più realismo e meno burocrazia. Gentilissima Signora Presidente, la luna di miele inizia presto ma dura poco: cento giorni. Fervidi auguri.